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Wael Al-Dahdouh a TPI: “Grazie ai media il mondo intero vede cosa sta accadendo a Gaza”

Immagine di copertina
Foto Al Jazeera concessa dal Festival Vicino Lontano

Colloquio col reporter di Al Jazeera che sotto i raid israeliani ha perso 3 figli, la moglie e altri 15 familiari. “L’Ue piange per gli ucraini dagli occhi azzurri ma non i palestinesi dagli occhi scuri. Prenda posizione sul genocidio”

Wael Al-Dahdouh è nato a Gaza City, dove dal 2004 ha lavorato come responsabile dell’ufficio di corrispondenza di Al Jazeera. A gennaio dell’anno scorso, un drone israeliano ha ucciso a Khan Younis il suo figlio maggiore, il 29enne Hamza Al-Dahdouh, anche lui giornalista per l’emittente araba. Sotto i bombardamenti dell’esercito israeliano dello scorso ottobre sul campo profughi di Nuseirat, sono morti la moglie Amna, due figli, Mahmoud e Sham, e suo nipote Adam, oltre ad altri quattordici familiari. 

Non ha mai smesso di svolgere il suo lavoro. Ha lasciato la Striscia per curare le sue ferite, ancora visibili sul suo corpo. In questo anno e mezzo Al-Dahdouh è divenuto, suo malgrado, uno dei simboli della resistenza palestinese. Ha ricevuto il Press Freedom Award 2024 e il Premio Tiziano Terzani 2025, dedicato alla memoria dei giornalisti e delle giornaliste di Gaza e consegnatogli al Festival “Vicino Lontano” di Udine, dove lo incontriamo. L’intervista riporta il dialogo integrale, senza tagli. 

La prima domanda è forse la più difficile. Come stai?
(Sorride). «Grazie a Dio, in ogni modo e per ogni cosa, nonostante tutto cerchiamo di continuare a vivere, continuare le nostre cure, continuare a svolgere il nostro ruolo a livello mediatico al fine di trasferire le informazioni. Siamo stati costretti (parla al plurale perché con lui c’è il collega Safwat Al-Kahlout, ndr) ad abbandonare Gaza, ma crediamo che questa partecipazione sia una continuazione del nostro ruolo. Alla stregua di come siamo riusciti a superare tutte le tragedie e le disgrazie, continuiamo con la stessa volontà, determinazione e perseveranza finché siamo vivi». 

214 giornalisti uccisi, più della Prima e della Seconda Guerra Mondiale assieme. Questa intervista uscirà fra qualche giorno. Speriamo che allora questo numero non sia aumentato. (lo è, nel mentre sono morti altri 6 operatori dei media). Ti chiamano «Al Jabal», la montagna. In tanti Paesi, la montagna è un luogo della resistenza. Significa combattere i fascismi di ogni tipo. In qualche modo, vostro malgrado, siete diventati parte della resistenza?
«Certamente noi, alla fine, siamo legati a questa professione. In maniera profonda e fondamentale ed è una missione non semplice, anzi molto importante per tutti. È utile ribadire che noi giornalisti facciamo il nostro dovere, indipendentemente da chi beneficia di questo nostro lavoro. Quello che conta è che lo facciamo in modo leale, obiettivo, veritiero, nonostante le difficoltà, le sofferenze e il fatto che a essere soggetti al genocidio siamo noi e i nostri compatrioti. La missione di continuare a fare arrivare l’informazione ai popoli non è semplice, ma di grande importanza. È molto più importante della resistenza, perché è grazie all’informazione che il mondo può vedere quello che sta accadendo. Come giornalista, quando subisco questi avvenimenti e continuo a svolgere la mia professione nonostante il prezzo pagato, divento un esempio, che può essere emulato da altri, che si sentono incentivati e protetti. Questo è il mio ruolo come essere umano, come persona, come giornalista, indipendentemente dalle etichette. È importante insistere sull’importanza del lavoro e del contenuto del giornalismo. È importante sia per chi riceve le notizie che per gli occupanti, che cercano di confondere le carte. Noi stiamo svolgendo una missione che è protetta dal diritto internazionale». 

L’anno scorso a Ramallah è stata chiusa la sede di Al Jazeera, ma a un certo punto Israele ha anche bandito l’Unrwa. Come hai vissuto questi momenti?
«La domanda ancora più importante dal mio punto di vista è: Al Jazeera ha smesso di lavorare? Le informazioni hanno smesso di arrivare? Le immagini hanno smesso di raggiungere i destinatari? No. Al contrario, la costanza del lavoro è aumentata. E questo è più importante della chiusura di una o due sedi. Viviamo in un mondo aperto, che non è più un villaggio ma un’ampia stanza, dove non si possono chiudere gli orizzonti e impedire alle persone di ottenere le informazioni. I social media ci permettono di avere maggiore libertà in questo senso».

Cosa ti aspetti che facciano le istituzione democratiche?
«C’è un detto che viene ripetuto da tanti nella Striscia, non solo dai giornalisti: “Quello che accade a Gaza, in mezzo a questo oscuramento e silenzio, deve essere preso in considerazione dall’Unione Europea con i due occhi e non con un occhio solo. Dev’essere ascoltato con le due orecchie, e non con una sola”. E deve essere ascoltato tramite le voci delle persone reali, le vittime che pagano dei prezzi altissimi senza motivo. Questo, ovviamente, richiederebbe un passo preciso. Aprire le tasche, le case, le banche ai profughi ucraini è stata una bellissima reazione, all’altezza dei valori dell’Europa, ma con la guerra a Gaza non è successo niente di tutto ciò. Dove sono questi valori? Come mai gli europei piangono per gli ucraini dagli occhi azzurri ma non i palestinesi dagli occhi scuri? L’Unione europea è molto importante nel mondo per i diritti umani. Davanti ad essa c’è una sfida morale come civiltà, come umanità, come governi, come Unione. Questa sfida o fallisce moralmente oppure fa una mossa e va avanti verso la giustizia. Noi non vogliamo che l’Unione europea si crei dei nemici, ma che sia giusta nei confronti della vita. C’è una parte geografica di questo mondo che è sovrappopolata, che ha una storia, delle sofferenze, delle speranze, che viene sottoposta a un genocidio sotto gli occhi del mondo. Cosa sta facendo l’Ue? Ho detto questo al Parlamento italiano. Non può mandare aerei, ma può dichiarare in maniera chiara che ci sono vittime che vengono bruciate in diretta. Più di 20.000 bambini sono stati uccisi. Centinaia di famiglie sono state cancellate. Di migliaia rimangono solo uno o due rappresenti. Decine di medici sono stati assassinati mentre svolgevano il loro lavoro dentro gli ospedali. Dei paramedici, quelli della difesa civile, sono stati uccisi e sotterrati con i loro veicoli. Queste immagini sono state trasmesse. Molte notizie richiedono tempo per essere confermate, ma moltissime altre sono in diretta. Se l’Unione europea vuole lavorare secondo i propri interessi, è necessario che prenda posizione». 

Come vedi non parlo arabo. Non sono mai stato in Palestina, ovviamente non sono mai stato a Gaza. Ma da due anni più ore al giorno leggo di quello che accade su quella sponda del Mediterraneo e, forse è un po’ stupida, ma mi sono fatto l’idea che Gaza, nonostante le difficoltà, fosse un posto bellissimo. Sul mare, con degli odori, dei sapori, dei colori unici.
«Non è un pensiero infantile. Chiediamo a Dio che questa guerra finisca e che possiamo accoglierti a Gaza. Nonostante sia piccola, Gaza non è solo bella ma uno dei più posti belli al mondo, e non perché sono di parte. Gaza sovrasta il mare, a Gaza ci sono dei campi da cui in questa stagione dell’anno arrivano gli odori dei fiori d’arancio. Chi visitava Gaza di solito arrivava con dei preconcetti: pensava di visitare un luogo povero, marginalizzato, devastato dalla guerra, con molte difficoltà. Ma tutti coloro che visitano Gaza ne escono sorpresi. Nonostante il confinamento degli ultimi vent’anni, c’è vita, ci sono case, ristoranti, alberghi anche se non c’è turismo. Sulla spiaggia ci sono luoghi di persone che hanno voglia di vivere e di creare la vita. Questa loro voglia non ha eguali nel mondo. Centinaia di migliaia di persone competono per un luogo di lavoro. O meglio, per mezzo luogo di lavoro. Ma con tutte le difficoltà, non demordono. Il cibo e le bevande, parte della cultura di Gaza, competono con il Libano o con la Siria. I piatti popolari, come il falafel, l’hummus, il ful vengono venduti sui carretti ma sembrano uscire da posti a 5 stelle. La Striscia di Gaza, di cui compare per la prima volta il nome in un testo egizio di 3.500 anni fa, ha una storia e una geografia eccezionali. E le persone, sono eccezionali per quanto riguarda la creazione, l’amore, e il trasporto per la vita. Amano gli ospiti e li onorano. È indubbio però che molte cose sono state cancellate». 

Torneremo, forse, in una Gaza libera, un giorno.
«Inshallah (Se Dio vuole, ndr)».

Shukran (grazie).
«È dovere».

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