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L’Europa si appresta a varare le regole sull’idrogeno verde: ecco perché le lobby sono già in agitazione

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C’è agitazione delle lobby mentre Bruxelles sta elaborando la definizione di “idrogeno verde”. La Commissione europea dovrebbe aprire un processo di consultazione dei cosiddetti stakeholder, e la posta in gioco è molto alta, perché riguarda la possibilità di considerare “verde” anche l’idrogeno prodotto da fonti fossili.

Ma per capire meglio la questione occorre fare un salto indietro di quasi vent’anni. Infatti le prime strategie europee sull’idrogeno risalgono alla Commissione di Romano Prodi che lanciò la Hydrogen and Fuel Cell Technology Platform. Si trattava di un programma di Ricerca e Sviluppo ispirato al libro di Jeremy Rifkin Economia all’Idrogeno del 2003 in cui Rifkin lanciava l’idea rivoluzionaria che scindendo la molecola dell’acqua in idrogeno e ossigeno si possa accumulare l’energia rinnovabile e fare massa critica sulle rinnovabili conquistando la sovranità energetica e l’indipendenza dai fossili.

L’obiettivo era quello di sviluppare una industria europea delle tecnologie dell’idrogeno, principalmente elettrolizzatori e celle a combustibile. In realtà su questo i tedeschi erano già molto avanti perché avevano già il loro programma nazionale, chiamato N.O.W. (Nationale Organisation Wasserstoff). Nel luglio 2020, con la Comunicazione 301, la Commissione Europea operò un cambio di passo, (anche questa volta preceduta dalla Germania che solo un mese prima aveva annunciato un programma da 9 miliardi di euro per la produzione di idrogeno verde) lanciando una nuova strategia europea per l’idrogeno come parte integrante del Green Deal Europeo (anch’esso ispirato a un libro di Jeremy Rifkin, “Il Green New Deal Globale).

La nuova strategia europea stabiliva l’obiettivo molto ambizioso di 10 milioni di tonnellate di idrogeno verde prodotto al 2030. Questo obiettivo sarebbe stato raddoppiato a 20 milioni di tonnellate a maggio 2022 in seguito all’invasione dell’Ucraina, con il programma REPowerEU che mira alla indipendenza energetica dell’Europa dalla Russia e dai fossili.

Le strategie europee per le rinnovabili prevedono il principio dell’addizionalità dell’idrogeno verde, vale a dire, che quei venti milioni di tonnellate di idrogeno vadano ottenuti a partire da nuovi impianti rinnovabili appositamente installati e non da impianti esistenti. A questo scopo è prevista un’agenda di investimenti per tutta l’UE fino a 340 miliardi di euro per un quantitativo di nuovi impianti rinnovabili fino a 120 GW.

Questo significa che la produzione di idrogeno non deve andare a “cannibalizzare” gli impianti rinnovabili già esistenti, ma deve diventare l’occasione per installarne di “addizionali” (ecco il principio dell’addizionalità). La Commissione Europea doveva emettere un decreto delegato nel giro di pochi mesi con la definizione delle condizioni in base alle quali la produzione di idrogeno può essere considerata verde, e cioè a emissioni zero. Son passati oltre due anni e quel decreto delegato non si è ancora visto. Almeno non fino a questa settimana quando un “non paper” di Bruxelles (del quale TPI è venuta in possesso), è stato elaborato e fatto circolare in ambienti riservati in vista della consultazione europea che dovrebbe aver luogo a partire dal 15 dicembre.

Questo ritardo viene attribuito, in ambienti ben informati di Bruxelles, principalmente a interventi dilatori del governo tedesco, che mirano ad ottenere una “addizionalità flessibile”, e cioè che consideri “verde” anche l’idrogeno prodotto da impianti rinnovabili esistenti e non necessariamente di nuova costruzione. Questo permetterebbe ai tedeschi di rispettare le prescrizioni europee utilizzando impianti da fonti rinnovabili esistenti senza doversi impegnare più di tanto nella costruzione di nuovi. 

Inoltre, per alcuni gruppi industriali legati al mondo fossile, bisognerebbe considerare verde anche l’idrogeno prodotto usando elettricità prelevata in rete, che notoriamente fornisce un mix nel quale le fonti rinnovabili giocano una parte marginale e che dunque comporta emissioni di gas climalteranti molto importanti. Tanto per capirci nel 2021 fare un kg di idrogeno con elettricità prelevata in rete in Germania (nel cui mix energetico il tasso di rinnovabili è abbastanza alto) comportava un tasso medio di emissioni pari a 574 grammi di CO2 per KWh, mentre per la stessa quantità di idrogeno in Polonia (Paese con poche rinnovabili e molte centrali a carbone), le emissioni salivano a 1071 grammi di CO2 per KWh di idrogeno prodotto.

La proposta di Bruxelles prevede 4 condizioni perché che l’idrogeno sia considerato “verde”.

La prima è che i produttori di idrogeno verde siano in grado di dimostrare con appositi contratti la provenienza rinnovabile dell’elettricità che usano per fare idrogeno con i loro elettrolizzatori.

La seconda è che i produttori riescano a dimostrare una correlazione temporanea fra la produzione di energia rinnovabile che utilizzano e la produzione di idrogeno. L’energia deve arrivare all’elettrolizzatore direttamente dalle pale eoliche e dai pannelli fotovoltaici, senza disperdersi in rete.

La terza è che per elettrolizzatori costruiti dopo il 2027, i produttori riescano a dimostrare che l’energia proviene da impianti energetici rinnovabili “addizionali” e non esistenti.

La quarta è che i sussidi pubblici vadano solo a produttori di idrogeno verde come definito sopra, e in caso contrario i sussidi dovranno essere ritirati.

Il testo del decreto delegato chiarisce che questa definizione di idrogeno verde è necessaria per mantenere alta la credibilità del Green Deal Europeo, e per applicare la cosiddetta Carbon Tax alle frontiere anche all’idrogeno prodotto fuori dai confini dell’Europa se non dovesse conformarsi alle definizioni europee di idrogeno verde. Non credo sia necessario un disegnino per spiegare quali siano i gruppi industriali che cercheranno di opporsi a questa strategia europea durante il processo di consultazione che dovrebbe iniziare il 15 dicembre.

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