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Inchiesta TPI – Bangladesh, Mai più Rana Plaza: ecco chi cuce i tuoi vestiti

Immagine di copertina
Credit: AP Photo

A dieci anni dalla tragedia costata la vita a 1.132 persone, Ludovica Amici si è recata a Gazipur e Savar, fulcro del polo tessile nel Paese. Qui i salari sono cresciuti poco. La sicurezza nelle fabbriche però è migliorata. Ma le tutele restano insufficienti. E a pagare è l'ambiente. Il reportage dell'inviata di TPI a Dacca

Tonnellate di cemento e metallo crollano sbriciolandosi sulla testa dei lavoratori che preparano vestiti per noi occidentali. Fragile come un castello di sabbia, gli otto piani del Rana Plaza a Dacca in Bangladesh, vengono giù nonostante fosse stato da giorni dichiarato pericolante e quindi inagibile, indignando tutto il mondo. Muoiono almeno 1.132 persone, perlopiù donne insieme a un certo numero di bambini che si trovavano negli asili nido all’interno dell’edificio, e ne rimangono ferite oltre 2.500. 

S&D

Era il 24 aprile 2013 e sono trascorsi dieci anni da quel disastro, il peggiore nella storia dell’industria tessile. Il palazzo viene giù per un cedimento strutturale perché costruito su uno stagno pieno e con materiali scadenti. L’edificio era inoltre stato progettato per negozi e uffici, ma non per fabbriche perché la struttura non era abbastanza forte da sopportare il peso e le vibrazioni di macchinari pesanti.

I sopravvissuti raccontano che i proprietari delle aziende collocate all’interno del palazzo crollato, avevano ignorato gli allarmi lanciati proprio dagli operai, che denunciavano delle crepe sospette, e avevano costretto i loro dipendenti a lavorare nonostante il pericolo per completare gli ordini in tempo per i marchi Mango, Primark, Benetton, Bonmarche e altri. Solo cinque mesi prima, altri 112 lavoratori avevano perso la vita in un altro tragico incidente, intrappolati all’interno della fabbrica in fiamme della Tazreen Fashions alla periferia di Dacca.

Dopo l’indipendenza nel 1971, il Bangladesh era uno dei paesi più poveri del mondo ma l’industria dell’abbigliamento confezionato (RMG) ha dato un importante contributo all’economia del Paese che ora rappresenta l’83 per cento dei proventi totali delle esportazioni nazionali e contribuisce per circa il 20 per cento al PIL. Un successo che si deve al pioniere dell’industria dell’abbigliamento ready-made in Bangladesh Noorul Quader Khan che nel 1978 inviò centotrenta apprendisti in Corea del Sud per imparare a realizzare capi ready-made, con i quali poi fondò la prima fabbrica “Desh Garments” dedicata alla produzione per l’esportazione. Dopo di lui molti altri imprenditori seguirono le sue orme e oggi sono circa 4.500 le fabbriche tessili che confezionano abbigliamento per le etichette occidentali.

Soltanto nell’anno fiscale 2021-2022 l’industria ha esportato capi per un valore di 42,613 miliardi di dollari, diventando così il secondo maggiore esportatore di abbigliamento al mondo. Gli Stati Uniti sono la principale destinazione per gli indumenti del Bangladesh, rappresentando circa il 21,5 per cento delle esportazioni totali. L’Unione europea (vale a dire Spagna, Germania, Italia, Francia, Belgio e Paesi Bassi) è la seconda destinazione, seguita da Regno Unito e Canada.

Si prevede che l’industria tessile e dell’abbigliamento del Bangladesh continuerà a crescere e dovrebbe rappresentare oltre il 10 per cento del mercato globale entro il 2025, secondo la Bangladesh Garment Manufacturers and Exporters Association (BGMEA) l’organizzazione commerciale nazionale di imprese di abbigliamento in Bangladesh.  

Nel distretto tessile
Siamo stati nei distretti di Gazipur e Savar, il fulcro dell’industria tessile a poco più di un’ora dalla capitale bangladese per capire se gli episodi tragici di Rana Plaza e Tazreen sono serviti da campanello d’allarme per una trasformazione del settore verso la regolamentazione, l’ispezione e la conformità in materia di sicurezza dei lavoratori. E per vedere dove è crollato il Rana Plaza, uno spazio rimasto vuoto, dove non si è più costruito ma è cresciuta soltanto della vegetazione.

Fuori da una di queste fabbriche a Savar, durante la pausa pranzo, parliamo con alcune lavoratrici e lavoratori che ci raccontano la loro situazione. Mallica si occupa di piegare le magliette in una di queste fabbriche da undici anni. Ci racconta di essere contenta semplicemente perché ha un lavoro che le permette di sopravvivere. Lal Miah e Nur Alam sono addetti al controllo della qualità delle magliette, lavorano otto ore al giorno, e guadagnano 120 dollari al mese. Ci dicono di essere felici ma che il salario dovrebbe essere più alto e dovrebbero avere più tutele perché da un momento all’altro potrebbero licenziarli.

Barsha invece lavora nella nursery all’interno della fabbrica e si prende cura dei figli delle donne lavoratrici guadagnando 80 dollari al mese. Oggi è a Savar dopo esser stata costretta a lasciare Sylhet, la città dove viveva, a causa delle forti inondazioni che le hanno fatto perdere tutto: casa e il lavoro che faceva. È una delle tantissime migranti climatiche che si è lasciata tutto alle spalle e si è trasferita qui per cercare lavoro, perché non aveva altra scelta.  

Visitiamo anche la Labib Dyeing Mills Limited, una fabbrica di tintura di filati nel distretto tessile di Gazipur dove lavorano 750 persone che ogni giorno tingono 75mila capi, 1200 tonnellate al mese. Il General Manager Md. Faruk Iqbal ci fa vedere tutti i passaggi per la tintura del cotone che proviene dalla Cina, e che loro colorano per poi spedirlo alle grandi aziende come Primark, Lindex, Mango, H&M, e Walmart e poi spiega a TPI qual è la condizione dei loro lavoratori: «Abbiamo un medico che viene ogni tre giorni a controllare il loro stato di salute e una nursery per i bambini delle lavoratrici. Il loro salario è leggermente migliorato negli anni ma è sicuramente ancora molto basso nonostante qui la vita sia economica. Avrebbero bisogno di essere tutelati di più perché se ai lavoratori dovesse succedere qualcosa, anche morire, l’assicurazione non li tutela e le loro famiglie non percepiscono nulla. Sono tutelati solo i presidenti».

Iqbal aggiunge che in futuro potrebbero esserci dei problemi: «È come se ci fosse una Guerra fredda perché presto le grandi aziende europee e statunitensi potrebbero dirci di non voler acquistare da noi perché prendiamo i tessuti in Cina. Ma se il Bangladesh vendesse materie prime all’Europa sarebbe troppo costoso, quindi per il bene di tutti non dobbiamo spezzare la catena. La Cina rimane una superpotenza del filato».

Diritti (ancora) violati
Così come è cresciuto il ruolo del Bangladesh nell’industria globale dell’abbigliamento, è cresciuta anche la consapevolezza sul rispetto dei diritti dei lavoratori e ora ci sono molte organizzazioni internazionali che si impegnano a educare i consumatori occidentali su come sono fatti i loro vestiti, e a fare pressione sui marchi multinazionali per migliorare la salute e la sicurezza nella loro catena di approvvigionamento. Le organizzazioni stanno spingendo le aziende a fornire ai lavoratori un salario dignitoso, condizioni di lavoro eque e sussidi di disoccupazione.

Come qualsiasi altra economia ad alta intensità di manodopera, la sicurezza sul posto di lavoro è una delle principali aree di preoccupazione per il Bangladesh perché il settore impiega circa 4,22 milioni di lavoratori, di cui circa il 55-60 per cento sono donne. L’industria tessile svolge un ruolo fondamentale nel cambiare l’equazione di genere nel Paese e nell’emancipazione femminile. Ma è anche un’industria che paga i salari più bassi al mondo. Generalmente lavorano dalle dieci alle dodici ore al giorno e vengono pagati circa 94 dollari, se si aggiungono gli straordinari che devono fare durante i festival o quando gli ordini sono alti, diventano circa 105-112 dollari.

«Il problema principale dell’industria dell’abbigliamento è che non esiste un salario minimo, giusto e dignitoso. La maggior parte dei marchi viene nel mio Paese per la manodopera a basso costo e questo significa sfruttamento. I nostri lavoratori sono in una situazione molto vulnerabile. Hanno molta fame e la malnutrizione è un problema chiave. Il salario minimo per sopravvivere dovrebbe essere di 23.000 taka al mese, circa 220 dollari», racconta a TPI Nazma Akter, ex lavoratrice tessile e fondatrice di Awaj Foundation, un’organizzazione impegnata a migliorare le condizioni di lavoro in Bangladesh e di dare voce ai lavoratori. Il nome dell’organizzazione riflette proprio la sua missione: la parola bengalese “awaj” significa suono o voce.

Il progresso verso un salario dignitoso è uno degli obiettivi chiave dell’organizzazione. Dal disastro di Rana Plaza cosa è cambiato? «Prima di tutto è stato stabilito l’Accordo internazionale per la salute e la sicurezza nell’industria tessile e dell’abbigliamento che promuove la sicurezza sul posto di lavoro attraverso ispezioni, programmi di formazione e un meccanismo di reclamo per i lavoratori. C’è anche una maggiore consapevolezza ed educazione tra i lavoratori e accordi legali con i marchi e il sindacato globale. Sono aumentati anche il congedo di maternità e altri benefici. Ma siamo nel decimo anniversario di Rana Plaza ed è ancora molto triste che tutti i proprietari delle aziende, per i quali i lavoratori morti nel disastro realizzavano indumenti, stiano vagando liberamente», ci spiega Nazma Aktar, che ci tiene a sottolineare anche altri due problemi.

«La globalizzazione insieme all’automazione e digitalizzazione rischia di far perdere il lavoro a molte donne che dovrebbero quindi ottenere un’istruzione per affrontare questa sfida. Inoltre il Bangladesh è ad alto rischio per la crisi climatica. Entro il 2030, almeno 80 milioni di persone saranno rifugiati e la maggior parte dei vulnerabili saranno donne, quelle che sono le lavoratrici povere. Quindi dobbiamo prenderci cura di queste cose e costruire un posto di lavoro dignitoso».

Cosa si può fare per migliorare le loro condizioni di lavoro? «Abbiamo bisogno di un cambiamento sistemico. I fornitori, i marchi e il potere dei lavoratori dovrebbero essere equamente distribuiti. Servono più salari dignitosi, e la protezione della maternità e sociale sono molto importanti perché durante il periodo della pandemia molte vite dei lavoratori sono state influenzate perché gli ordini sono diminuiti e loro stavano perdendo il lavoro».

Inquinamento fluviale
C’è un altro problema: l’inquinamento nei fiumi intorno alla capitale ha raggiunto livelli molto elevati. Gli agricoltori della zona dicono che il rilascio indiscriminato di acque reflue dalle vicine fabbriche di abbigliamento ha trasformato i campi agricoli in catrame e provoca malattie. Gli studi che sono stati fatti nella zona lo confermano e hanno rivelato che le microplastiche sono presenti nell’acqua, nei sedimenti, nei pesci e in altri animali acquatici. L’area è spesso costretta ad affrontare delle gravi crisi di acqua potabile.

«Anche se l’industria dell’abbigliamento svolge un ruolo fondamentale nel contribuire all’economia, l’ambiente intorno ne sta pagando un prezzo elevato. Secondo i dati, fabbriche di abbigliamento confezionato che tingono, lavano e colorano tessuti, scaricano indiscriminatamente acque reflue nei fiumi, anche se vi è un divieto legale. Come riportato dall’Organizzazione per l’ambiente e lo sviluppo sociale-Esdo, di tutti i prodotti tessili prodotti a livello globale, fino al 65 per cento è costituito da fibre sintetiche, come il poliestere, le fibre sintetiche perdono minuscoli frammenti di plastica, inferiori a cinque millimetri di diametro. Queste microplastiche non si decompongono facilmente e possono rimanere nell’ambiente per centinaia di anni. Sono anche spesso consumate da animali marini. Inoltre, i fiumi intorno alle industrie contenevano più contaminanti, da alti livelli di inquinanti organici a metalli pesanti. In particolare, si scoprì che i fiumi erano visivamente di colore nero e con odori sgradevoli», spiega a TPI Shahriar Hossain Senior Technical Advisor di Esdo, che poi aggiunge: «L’industria della tintura produce un’enorme quantità di olio, grasso e ammoniaca, che contamina pesantemente i corpi idrici locali. Nessuno può usare quest’acqua e le persone hanno riportato vari problemi fisici. L’indagine sull’acqua del fiume e sui campi agricoli vicino alle industrie è risultata inquinata dieci volte superiore al livello consentito».

Con quali conseguenze sui lavoratori e l’ambiente? «Il contesto di lavoro non è buono in tutte le fabbriche. I lavoratori sono spesso costretti a lavorare in ambienti congestionati con spazio limitato e un sistema di ventilazione insufficiente. Spesso soffrono di malattie trasmesse dall’acqua, come tifo, colera, intossicazione alimentare, diarrea, epatite A e B sono comuni, a causa della mancanza di acqua potabile sicura», ci dice l’esperto.

Hossain suggerisce che per prevenire queste conseguenze il governo e l’industria dovrebbero rispondere e garantire la sicurezza della salute sul lavoro e ambientale. La conservazione dell’acqua deve avere la priorità e, dall’altro, devono garantire che l’industria tratti e smaltisca queste acque reflue in modo ecologicamente corretto. «La conservazione e la raccolta dell’acqua piovana possono essere promosse meglio e molti operatori del settore dell’abbigliamento stanno già andando in questa direzione. Stanno investendo nella tecnologia moderna, che include apparecchiature di trattamento che fanno un uso più efficiente dell’acqua e di una tecnologia migliore di trattamento. L’industria sta sicuramente andando nella giusta direzione, ma è necessario un maggiore sostegno da parte del governo e anche dei buyer internazionali, che dipendono fortemente dalla nostra industria», conclude. 

È evidente che nonostante qualcosa sia cambiato negli ultimi dieci anni dopo il disastro di Rana Plaza e si stia tentando di migliorare il settore tessile, molto resta ancora da fare. Come per esempio affrontare il problema del pagamento tempestivo delle retribuzioni, la salvaguardia del salario minimo e l’igiene sul posto di lavoro per rendere l’industria un modello per la produzione etica. Altrimenti aumenteranno i clienti internazionali che decideranno di abbandonare gli acquisti dal Bangladesh, inseguendo una moda più sostenibile.

*** Aggiornamento del 28 aprile 2023 ***

Rispetto all’articolo pubblicato sul n. 14/2023 del settimanale TPI, con riferimento al marchio Zara citato nella versione cartacea, Inditex precisa che «benché non avesse rapporti commerciali con le fabbriche situate nell’edificio del Rana Plaza, il Gruppo si è fin da subito impegnato per offrire supporto alle vittime e ai famigliari della tragedia del Rana Plaza, partecipando attivamente alle iniziative avviate per limitare le conseguenze del crollo e fornendo un sostegno economico. Difatti, a seguito di specifiche valutazioni, due anni prima il Gruppo aveva escluso la possibilità di collaborare con questi stabilimenti. Inditex ha sostenuto e partecipato attivamente fin dall’inizio alla stesura dell’Accordo sulla sicurezza antincendio e degli edifici» formulato nel 2013 ed esteso con la firma dell’Accordo internazionale del 2021.

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