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La lettera in cui il giornalista turco Altan spiega cosa vuol dire sentirsi liberi pur vivendo in una prigione

Immagine di copertina

Ahmet Altan è un famoso scrittore e giornalista turco condannato all'ergastolo per aver mandato "messaggi subliminali" prima del fallito golpe del 15 luglio 2016. In questa lettera spiega cos'è per lui la libertà dalle sbarre di una cella

Ahmet Altan è un giornalista e scrittore turco, nato ad Ankara nel 1950. Ex direttore del quotidiano Taraf, critico nei confronti del presidente Erdogan, è stato arrestato con l’accusa di aver favorito il tentato colpo di stato del luglio 2016. Per la sua liberazione si sono mobilitati scrittori e intellettuali in tutto il mondo.

S&D

I suoi romanzi e saggi hanno venduto milioni di copie, e sono stati premiati in Turchia e all’estero. “Scrittore e assassino” è stato venduto in 7 paesi. La sua memoria difensiva è stata pubblicata in Italia con il titolo “L’atto di accusa come pornografia giudiziaria”.

A febbraio 2018 il famoso giornalista è stato condannato all’ergastolo con l’accusa di aver mandato “messaggi subliminali” prima del fallito golpe del 15 luglio 2016.

Altan ha descritto la sua esperienza in prigione in un saggio intitolato The Writer’s Paradox del 18 settembre del 2017, tradotto da Yasemin Çongar e pubblicato dalla Society of Authors.

In esso, Altan rivela di essere “trattenuto in un carcere di massima sicurezza nel mezzo di terre selvagge”, in una cella dove i suoi pasti arrivano attraverso un buco nella porta. Non gli è permesso vedere nessuno, tranne i suoi avvocati e i suoi figli.

In occasione della Giornata mondiale della libertà di stampa, pubblichiamo un prezioso estratto del saggio:

Sto scrivendo nella cella di una prigione.

Prima di cominciare ad impietosirvi, però, ascoltate ciò che ho da dire.

Sì, sono stato rinchiuso in una prigione di alta sicurezza in mezzo al nulla.

Sì, vivo in una cella le cui porte di ferro si aprono e si chiudono con rumori pesanti.

Sì, i pasti mi vengono serviti attraverso una fessura nella porta.

Sì, anche il piccolo cortile con il suo pavimento di pietra dove cammino avanti e indietro, è coperto da sbarre.

Sì, non posso vedere nessuno tranne il mio avvocato e i miei figli; non mi è nemmeno concesso di scrivere ai miei cari.

Sì, ogni volta che mi vengono a prendere nella mia cella, urlano ordini come “mani in alto” e “togliere le scarpe”.

Tutto questo è vero, ma non è tutta la verità.

Fino ad oggi, non mi sono svegliato una sola volta in prigione. Mai.

In estate, quando i primi raggi di sole penetrano dalla finestra sbarrata, trafiggendo come delle lame luminose il mio cuscino, ascolto il canto degli uccelli migratori che hanno dormito vicino all’acqua e il suono secco delle bottiglie di plastica scalciate dai piedi dei detenuti che camminano avanti e indietro nel cortile.

In questi momenti ho la sensazione di essere nel giardino della mia casa d’infanzia o – non so perché, in un piccolo albergo in uno di quelle vie parigine rumorose che mi ricordano “Irma la Douce”.

Quando invece mi sveglio e il rabbioso vento del nord spinge le piogge d’autunno contro la mia finestra, allora comincio la mia giornata in un albergo sulla riva del Danubio, davanti al quale ogni notte, si accendono delle fiaccole. Quando mi sveglia il sussurro della neve che si ammucchia sul davanzale, allora mi trovo dietro la finestra della casa dove il dott. Zivago trovò rifugio.

Fino ad oggi, non mi sono svegliato una sola volta sola in prigione. Mai.

E tutto questo non è ancora nulla in confronto alle mie avventure notturne. Passeggio su delle isole thailandesi, nelle vie di Amsterdam, nei labirinti nascosti di Parigi e nei piccoli parchi che si estendono tra le grandi vie di New York. Mi trovo nelle strade innevate di una piccola città in Alaska, in un albergo a Londra e in un ristorante a Istanbul.

Ho amici in tutto il mondo che mi aiutano a viaggiare anche se, la maggior parte di loro, non ho mai visto.

Posso incontrarli anche sulle rive del rio dell’Amazzoni, in una spiaggia del Messico, nelle savane africane. Ogni giorno parlo con delle persone che nessuno vede, persone che non esistono e che io chiamerò in vita nel momento in cui comincerò a scrivere su di loro. Ascolto mentre parlano tra di loro. Vivo il loro amore, le loro avventure, speranze, preoccupazioni e gioie. A volte rido silenziosamente mentre cammino in cortile – le loro conversazioni possono essere assai divertenti. E siccome qui in prigione non voglio incominciare, le scrivo con l’inchiostro scuro della memoria direttamente nel mio cervello.

So di essere uno schizofrenico finché tutte queste persone abitano solo nella mia testa. Ma so anche che sono uno scrittore e che un giorno, tutti si ritroveranno tra le pagine di un libro. Mi diverto ad oscillare come su una altalena tra la schizofrenia e il mio essere scrittore. Mi alzo in aria come fumo e esco dalla prigione accanto a tutti quelli che vivono nei miei pensieri. Loro – gli altri – avranno il potere di gettarmi in prigione, ma non quello di tenermi là dentro.

Dietro la difesa d’acciaio dei miei libri sono inviolabile.

Sono uno scrittore.

Non sono né là dove sono, né là dove non sono.

Ovunque voi mi chiuderete, io viaggerò per il mondo sulle ali dei miei pensieri.

Inoltre, ho amici in tutto il mondo che mi aiutano in questi miei viaggi, anche se la maggior parte di loro non ho mai visto.

Ogni occhio che legge ciò che scrivo, ogni voce che nomina il mio nome, mi prende per la mano come una piccola nuvola e mi fa volare sopra pianure, fonti, boschi, mari, città e strade. Con gesti semplici mi ospitano nelle loro case, nelle loro sale e stanze.

In una cella della prigione, esploro tutto il mondo.

Avete indovinato: Possiedo l’arroganza divina che raramente si confessa, ma che appartiene a tutti gli scrittori e che viene trasmessa da generazione in generazione. Possiedo la sicurezza che cresce come una perla nel duro guscio della letteratura. Dietro il rifugio dei miei libri sono inviolabile.

Scrivo in una cella di prigione.

Ma non sono in prigione.

Sono uno scrittore”.

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