Il caso italiano degli stipendi da fame: così i giovani non possono più permettersi di comprare casa
Le retribuzioni non aumentano da trent’anni, le tasse sul lavoro non calano e la produttività resta al palo. Il Governo promette sgravi e bonus, l’opposizione chiede il salario minimo ma intanto siamo fermi al 1991
Riuscire a comprare casa solo grazie al proprio stipendio per gran parte degli italiani under 40 nel 2025 è davvero difficile, se non impossibile. Nel nostro Paese infatti i salari sono fermi. Non da qualche anno ma da trenta. Sì, avete capito bene.
Dagli anni Novanta (per l’esattezza 1991, quando ha operato, per l’ultima volta, lo scatto di contingenza) in Italia sul fronte salari non si muove una foglia. Un primato negativo per il nostro Paese che è maglia nera tra le economie Ocse. A sostenerlo sono i numeri. Secondo i dati del rapporto Employment Outlook 2025, nonostante ci sia stato un lieve recupero nell’ultimo anno, a inizio 2025 i salari degli italiani erano nuovamente inferiori del 7,5 per cento rispetto a quelli del primo trimestre 2021. E se andiamo più indietro e prendiamo come riferimento il 2008, per l’Ilo (Organizzazione internazionale del lavoro) sono diminuiti dell’8,7 per cento: la perdita più alta tra i Paesi del G20.
Tre decenni persi
Uno stallo che è iniziato anni e anni fa. Secondo l’Ocse, i redditi da lavoro nel 2020 erano già più bassi del 2,9 per cento rispetto al 1990. Un problema tutto italiano. Basti guardare cosa è avvenuto nella vicina Francia dove, nello stesso periodo, gli stipendi sono aumentati del 31 per cento. Sì, negli ultimi due anni – come ha sostenuto la presidente del Consiglio Giorgia Meloni – gli stipendi degli italiani sono «cresciuti» (nel 2024 le retribuzioni sono aumentate del 3,1 per cento a fronte di un’inflazione dell’1,1 per cento; tra gennaio e agosto 2025, la crescita è stata del 3,4 per cento con inflazione all’1,8 per cento), ma decisamente non abbastanza per recuperare l’enorme perdita registrata dagli anni Novanta ai giorni nostri. E il futuro non sembra promettere bene: se per l’Ocse l’aumento dei salari nominali in Italia sarà del 2,6 per cento nel 2025, nel prossimo anno la percentuale si fermerà al 2,2 per cento.
Insomma, praticamente gli stipendi degli italiani sono gli stessi da tre decenni. Per la precisione, secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, che ha confrontato la situazione attuale dei salari in Italia con la crisi economica del 2008, oggi i nostri stipendi – al netto dell’inflazione – sono più bassi dell’8,7 per cento. E i consumi, conseguenza logica, sono in diminuzione. Nonostante il rinnovo dei principali contratti collettivi nell’ultimo anno, fa sapere l’Ocse, «abbia portato ad aumenti salariali negoziati superiori al solito, questi non sono stati sufficienti a compensare completamente la perdita di potere d’acquisto causata dall’aumento dell’inflazione. Inoltre, all’inizio del primo trimestre del 2025, un dipendente su tre del settore privato era ancora coperto da un contratto collettivo scaduto».
Il confronto con l’Ocse
Ma andiamo ancor più nel dettaglio. Con la complicità dell’alta tassazione sul lavoro in Italia, nel 2024, il salario al netto della tassazione era di 41.438 dollari, contro la media Ocse di 45.123 dollari. Dati che collocano il nostro Paese al 23esimo posto tra i 38 aderenti all’organizzazione. Vicini a noi troviamo la Spagna, che – comunque – con 43.034 dollari ci precede, la Polonia (39.200 dollari) e la Turchia (39mila dollari). Colpa delle tasse. Non solo. Anche i Paesi che hanno un cuneo fiscale più elevato di quello italiano (47,1 per cento; quarta posizione nella graduatoria dell’Ocse), o su livelli simili, hanno livelli salariali netti più alti. La Francia è a 48.500 dollari, il Belgio a oltre 52mila, la Germania si avvicina ai 56mila dollari e l’Austria viaggia sui 59mila. Chi comanda la speciale classifica? La Svizzera che con 84.728 dollari ha il salario netto medio più alto a parità di potere d’acquisto.
Quali sono però i motivi che frenano gli stipendi degli italiani? Dietro l’impoverimento dei lavoratori dipendenti ci sono principalmente due problemi. Il primo è che la produttività non cresce. Anzi, secondo il rapporto del Cnel la produttività è diminuita del 2 per cento sia nel 2023 che nel 2024; il secondo è che il potere contrattuale del sindacato è sceso anche a causa del moltiplicarsi di organizzazioni non rappresentative che negoziano contratti al ribasso.
Le promesse di Meloni
Il Governo di Giorgia Meloni ha ben presente il problema e per affrontarlo, nell’immediato, ha messo in campo alcune misure in legge di Bilancio per sostenere le buste paga. Le principali sono: tassazione al 5 per cento degli aumenti contrattuali, garanzia del recupero dell’inflazione (fino al 5 per cento) quando il contratto non è stato rinnovato da due anni e straordinari, festivi e notturni a tassazione ridotta.
«Sappiamo che in Italia c’è un problema legato ai salari, ma non si risolve da un giorno all’altro», le parole della presidente del Consiglio durante la conferenza stampa che si è svolta al termine del Consiglio dei ministri che ha approvato la legge di Bilancio. «Nei 10 anni precedenti al nostro Governo, il potere d’acquisto dei salari italiani diminuiva di oltre il 2 per cento mentre il resto d’Europa cresceva del 2,5 per cento. La buona notizia è che adesso questa tendenza si è invertita. I salari hanno ripreso a crescere più dell’inflazione e quindi la strategia che il Governo ha messo in campo sta dando dei frutti».
Meloni ha poi aggiunto: «Abbiamo cercato, con questa legge di Bilancio, di mettere un altro tassello concentrandoci sull’aumento dei contratti, oltre al salario accessorio, quindi abbiamo risposto anche a un’indicazione che veniva dalle parti sociali, dicendo che nel 2025 e 2026, sull’aumento dei contratti fino a 28mila euro, la parte di aumento è tassata al 5 per cento. Noi crediamo che possa essere un incentivo significativo per il rinnovo dei contratti che non sono stati firmati. Non ne volevamo fare una discriminazione, quindi lo abbiamo previsto retroattivamente anche per il 2025, altrimenti per paradosso si rischiava che fosse beneficiato chi era stato meno attento. Speriamo che si possa dare un ulteriore segnale: punteremo nei prossimi anni ad aggiungere sempre qualcosa», ha concluso.
Le proposte dell’opposizione
Intanto l’opposizione – abbastanza compatta – ha avanzato le sue proposte sul salario minimo legale e sulla riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. Alleanza Verdi Sinistra ha infatti lanciato “Sblocca Stipendi!”, una proposta – a prima firma Nicola Fratoianni – sull’indicizzazione dei salari. Si tratta di un intervento per far aumentare gli stipendi e adeguarli al costo della vita e all’inflazione. Insomma, se il costo della vita sale, anche il salario deve crescere di pari passo. Anche perché con l’inflazione, tutto è aumentato: le tariffe telefoniche, i prezzi degli alimenti, della benzina, dei voli, degli alberghi, degli affitti e dei mutui. Inflazione e carovita hanno fatto crollare il potere d’acquisto delle famiglie italiane dell’11,5 per cento dal 2019.
Il meccanismo proposto non è una novità. Già esisteva (approvato nel 1945) e si chiamava “scala mobile”. Era un meccanismo di adeguamento trimestrale delle retribuzioni all’inflazione, attraverso dei “punti di contingenza” legati a un “paniere” di beni di riferimento per indicizzare i prezzi. Le variazioni del costo della vita venivano determinate ogni tre mesi e i salari venivano adeguati. Poi nel 1984 la cancellazione con il cosiddetto “decreto di San Valentino”, confermato poi dal referendum del 1985. Infine nei primi anni 90 i governi Amato e Ciampi cancellarono definitivamente l’adeguamento degli stipendi all’inflazione.
In sostanza la proposta prevede che ci sia un meccanismo che adegui automaticamente ogni 12 mesi lo stipendio all’inflazione, tramite un decreto del Consiglio dei Ministri. La percentuale di adeguamento verrebbe calcolata in base alle previsioni per i 12 mesi successivi e dell’inflazione effettiva dei 12 mesi precedenti.
Sul tema si è esposta più volte anche la segretaria del Pd, Elly Schlein: «La Germania ha deciso che il salario minimo salirà a 14.60 euro. La Spagna l’ha aumentato del 50 per cento. In Europa ci sono ventidue Stati su ventisette che hanno una legislazione in materia. Ma nell’Italia di Giorgia Meloni 4 milioni di lavoratrici e lavoratori sono poveri anche se lavorano. E lei finge di non vederli, e si para dietro i regolamenti del Parlamento pur di non discutere e approvare una legge di civiltà che non può più aspettare, su cui abbiamo raccolto 100mila firme – ha aggiunto -. Sono passati due anni da quando abbiamo presentato la nostra proposta unitaria sul salario minimo e ci ha convocati a Palazzo Chigi per parlarne. Ma da allora Meloni non ha avuto nemmeno il coraggio di votare contro, la stanno tenendo su un binario morto. Non ci fermeremo finché la nostra proposta sul salario minimo non sarà finalmente discussa e votata dal Parlamento».
A rincarare la dose è stato poi il leader del Movimento 5 Stelle, Giuseppe Conte, che – pochi giorni fa – rivolgendosi alla Meloni ha detto: «Sono venuto da lei a Palazzo Chigi insieme alle opposizioni per portarle la proposta sul salario minimo. Appena me ne sono andato ha aumentato lo stipendio a Brunetta, ai ministri e ai sottosegretari. È così che si fa?».
Poi ancora: «In questi 3 anni le tasse si sono mangiate oltre 20 miliardi di stipendi fra inflazione e carovita. Non hanno capito che potere d’acquisto e stipendi in questo momento sono la prima emergenza nazionale. Il Governo sembra solo impegnato a rassicurare con la premier che “non c’è alcuna tassa sugli extraprofitti delle banche” e a trattare sconti per i giganti del web che pagano briciole di tasse. Insomma, sugli stipendi anche per quest’anno è andata meglio a ministri e sottosegretari a cui hanno aumentato i rimborsi a disposizione. Per tutto il resto si investe in armi. Noi continuiamo a insistere: si recuperino soldi veri da extraprofitti e riarmo, si investano su un forte taglio delle tasse, con allargamento della no tax area».