Benvenuti nell’era dell’Ereditocrazia, dove non conta il lavoro ma solo il patrimonio
Oggi il modo più sicuro per raggiungere il benessere economico è ricevere un lascito patrimoniale. Il lavoro conta sempre meno. Così la mobilità sociale è ferma e aumentano le disuguaglianze. Ecco come siamo arrivati a questo punto
Altro che sposare un medico o un avvocato. Oggi, per “sistemarsi”, la via più sicura è scegliersi un partner che abbia accesso a una eredità. Può sembrare cinico, ma è una realtà difficile da confutare. Negli ultimi anni in Europa sono state pubblicate diverse ricerche che lo confermano. Una delle più citate è quella condotta tra Germania e Francia dagli economisti Etienne Pasteau della Paris School of Economics e Junyi Zhu della Bundesbank: basandosi su analisi statistiche, l’indagine afferma che, nello spiegare le scelte matrimoniali, la prospettiva di godere dei vantaggi di una successione post-mortem ha un’influenza due volte e mezzo maggiore rispetto al reddito da lavoro.
Sembra di rileggere le trame di certi romanzi di fine Ottocento, come “Orgoglio e pregiudizio” di Jane Austen, o, per essere più pop, di rivedere una puntata di “Downton Abbey”, serie tv ambientata nell’Inghilterra di inizio Novecento, dove ogni matrimonio si riduce a un investimento patrimoniale travestito da storia d’amore. E in effetti, per certi versi, è proprio alle logiche e agli squilibri di quell’epoca che stiamo tornando. Secondo un’elaborazione pubblicata lo scorso febbraio da The Economist, nel 1900 le eredità in Francia e Regno Unito valevano oltre il 20% del Pil nazionale. Nel corso del XX secolo, di pari passo con il progresso economico e l’avanzamento dello Stato sociale, il rapporto è andato calando, fino al 5% circa, ma a partire dagli anni Ottanta ha ripreso a salire e oggi è stimato tra il 10 e il 15%. In Italia si è passati dall’8,4% nel 1995 al 15,1% nel 2016 e adesso si sfiora il 20%.
Di pari passo, in senso opposto, negli ultimi cinquant’anni i redditi da lavoro hanno visto progressivamente sbiadire la propria funzione di leva sociale. Dati del Fondo Monetario Internazionale indicano che nelle economie avanzate la quota di Pil destinata a salari, stipendi e altre forme di compenso è crollata dal 54% del 1970 al 40% del 2015, mentre, limitandosi agli ultimi vent’anni, l’Organizzazione Mondiale del Lavoro (Ilo) calcola che la percentuale sul Pil globale dei redditi da lavoro sia scesa dal 53,7% del 2004 al 52,3% del 2024.
Incrociando queste tendenze, risulta abbastanza evidente come, da ormai qualche decennio, la ricchezza si annidi sempre di più nel capitale e sempre di meno nel lavoro. È talmente lampante che l’editore HarperCollins ha inserito nel suo prestigioso dizionario di lingua inglese la parola «Ereditocrazia» definendola come «un sistema economico in cui la ricchezza è principalmente ereditata piuttosto che guadagnata».
Squilibri fiscali
Il primo ad accorgersi di questo fenomeno è stato l’economista britannico Anthony Atkinson, scomparso nel 2017 a 73 anni. In uno dei suoi ultimi paper pubblicati, il professore della London School of Economics si chiedeva: «Stiamo tornando ai livelli di ereditarietà del XIX secolo?».
Stando ai dati da lui stesso raccolti e analizzati, relativi al periodo 1896-2006, la risposta implicita è affermativa. «Una società in cui ogni anno le persone possono aspettarsi di ricevere in eredità una somma pari a circa un quinto del reddito totale è molto diversa da una in cui tale somma si aggira intorno a un cinquantesimo», osservava Atkinson. Una considerazione a cui seguiva una logica presa d’atto: «Se l’eredità sta tornando, allora dobbiamo riconsiderare il suo ruolo come base imponibile».
Qui incontriamo uno dei principali nodi della questione. Da mezzo secolo a questa parte, infatti, in gran parte degli Stati occidentali si è deciso di abbassare drasticamente l’imposta di successione. Nel 1965 il gettito derivante dalle tasse sulle eredità era pari al 13% del Pil nel Regno Unito e al 10% del Pil in Italia. Dieci anni più tardi, nel 1975, le percentuali erano precipitate rispettivamente al 2 e allo 0,6%, mente oggi rappresentano lo 0,2% del Pil britannico e lo 0,05% di quello italiano.
Spiega The Economist: «I politici si sono rivoltati contro queste imposte. Alcuni sono stati influenzati dalle pressioni del lobbying. Altri temevano che, in un mondo globalizzato, le imposte sulla ricchezza avrebbero spinto i ricchi a fare marcia indietro».
Alcuni Paesi – tra cui Australia, Canada, India, Norvegia, Russia e una ventina di Stati negli Usa – hanno abolito del tutto l’imposta di successione, mentre in Italia governi di ogni colore politico l’hanno mantenuta ma quasi azzerata: oggi chi riceve un’eredità non paga nulla fino a un milione di euro e oltre questa soglia l’aliquota varia dal 4 all’8% a seconda del grado di parentela con il de cuius.
Negli ultimi cinquant’anni in quasi tutto l’Occidente il mantra è stato aumentare la pressione fiscale sul lavoro e ridurre quella sui redditi da capitale (non solo le eredità ma anche i dividendi e le plusvalenze): in questo modo, è diventato più conveniente accumulare ricchezza attraverso investimenti e patrimoni anziché puntando sul lavoro. L’economista francese Thomas Piketty ha coniato l’espressione «capitalismo patrimoniale» per descrivere proprio questo sistema, in cui la ricchezza ereditata e accumulata supera il reddito da lavoro e alimenta le disuguaglianze.
Il peso dei Boomer
Il crescente peso delle eredità rispetto al lavoro è stato favorito anche dal fattore demografico, associato all’andamento dell’economia in Europa e Stati Uniti dal secondo dopoguerra ad oggi.
Durante la seconda metà del Novecento la generazione dei “Boomer” (i nati tra il 1946 e il 1964) ha assorbito ricchezza grazie a una crescita economica sostenuta, a politiche di welfare generose e all’impennata dei prezzi delle abitazioni. Oggi i tedeschi over 65, che costituiscono un quinto della popolazione, possiedono un terzo della ricchezza del Paese. Ancora di più, i loro coetanei americani, anch’essi un quinto della popolazione nazionale, possiedono metà della ricchezza netta statunitense.
Questa generazione caratterizzata da un diffuso benessere ha lasciato, sta lasciando e lascerà ricchi patrimoni ai propri figli e nipoti. E a rendere ancor più pesante il malloppo per questi ultimi è la crisi demografica in atto da almeno una trentina d’anni pressoché ovunque nel mondo occidentale. L’ovvia conseguenza è che, in media, una singola eredità viene suddivisa tra un numero di persone inferiore rispetto a prima. «Avere un fratello o una sorella può essere bello, ma ha un prezzo», ironizza The Economist, ricordando come nel Regno Unito «negli ultimi decenni il calo dei tassi di natalità abbia aumentato l’importo che spetta all’erede medio di circa 60.000 sterline, ovvero del 24%».
La Banca di mamma e papà
Al giorno d’oggi, ereditare è il mezzo non solo più semplice ma anche sempre più frequente attraverso il quale ci si può arricchire. Secondo la banca Ubs, nel 2023 i lasciti post-mortem hanno reso miliardarie 53 persone nel mondo, non molte di meno rispetto alle 84 che lo sono diventate grazie ai guadagni messi a segno lavorando. E il patrimonio complessivo di queste ultime (pari a 140 miliardi di dollari) è comunque già stato superato da quello dei “miliardari per discendenza” (151 miliardi).
Ma il fenomeno dell’ereditocrazia non riguarda solo gli ultra-ricchi: anche ricevere un gruzzoletto di entità media o bassa può fare la differenza. L’esempio di scuola è quello dell’acquisto di un immobile: oggi un trentenne che non può contare sul sostegno economico della propria famiglia difficilmente può permettersi di comprare casa.
Nel Regno Unito uno studio promosso dall’Università di Oxford ha rilevato che tra il quinquennio 1990-1994 e il 2015-2019 è raddoppiata la percentuale di chi ha acquistato per la prima volta un’abitazione grazie al supporto dei propri genitori.
La questione è più che mai nota anche alle nostre latitudini. Secondo un rapporto pubblicato lo scorso anno dal Centro Internazionale Studi Famiglia (Cisf), in Italia oltre il 70% degli Under 35 che comprano casa dichiara di aver ricevuto (in tutto o in parte) un aiuto da parte dei propri familiari.
Salari a picco
In questo contesto, chi non ha la fortuna di ereditare un patrimonio – cospicuo o meno che sia – rischia di rimanere tagliato fuori da gran parte delle opportunità di emancipazione sociale ed economica. Del resto, sempre più di rado il lavoro svolge la propria funzione di ascensore sociale.
In un articolo online sul sito del Fondo Monetario Internazionale si legge che a partire dagli anni Ottanta, specialmente nelle economie avanzate, «una quota crescente degli incrementi di produttività è andata al capitale. E poiché il capitale tende a concentrarsi nelle fasce più alte della distribuzione del reddito, è probabile che la diminuzione delle quote di reddito del lavoro aumenti la disuguaglianza di reddito».
In sostanza, gli stipendi e le altre forme di compenso per i lavoratori non hanno tenuto il passo con la crescita economica. Ciò è avvenuto per una combinazione di fattori, che vanno dalla globalizzazione, che ha indebolito l’industria occidentale, all’innovazione tecnologica, che ha alterato la domanda di occupazione, dalla crescente concentrazione di imprese alle già citate politiche fiscali che hanno premiato il capitale a scapito del lavoro.
L’Ocse ha stimato che nel ventennio 1995-2014, se i salari reali fossero aumentati di pari passo con la produttività, sarebbero risultati più alti del 13% alla fine del periodo, mentre dal 2014 al 2024 l’Ilo ha calcolato che se la quota di Pil destinata al lavoro fosse rimasta costante tutti i lavoratori del mondo avrebbero intascato complessivamente un trilione di dollari in più. E l’Italia spicca in negativo: siamo l’unico Paese dell’area Ocse in cui negli ultimi trent’anni i salari reali sono diminuiti e siamo settimi nell’Unione europea per tasso di lavoratori a rischio povertà (ma fino al 2022 eravamo quarti).
Così la mobilità sociale è ingessata: chi nasce povero resta povero. E chi nasce in una famiglia del ceto medio rischia di impoverirsi, se non può contare su un patrimonio che lo garantisca.
Lobby potente
Il sistema ereditocratico che si sta affermando logora non solo chi ne escluso, ma tende a nuocere a tutti. In primis perché, come detto, il primato del capitale sul lavoro finisce per allargare le disuguaglianze sociali. E quindi, a cascata, rischia di rallentare i consumi.
Poi perché, all’interno di questo contesto sempre più iniquo, si viene a creare un sotto-squilibrio nel mercato immobiliare, in base al quale chi gode di una copertura familiare risulta notevolmente avvantaggiato. Una ricerca condotta negli Stati Uniti da Legal & General, una società di servizi finanziari, ha concluso che se la immaginaria «Banca di mamma e papà» fosse un’azienda, sarebbe tra i dieci maggiori istituti di credito ipotecario del Paese.
Infine, se prevale l’idea che lavorare è una fatica inutile e che nella vita è meglio adagiarsi sul patrimonio che discende dai propri avi, il rischio è che ne risenta anche l’iniziativa imprenditoriale, e dunque l’innovazione, la ricerca, lo sviluppo.
L’ereditocrazia, dunque, è nemica sia della giustizia sociale sia della crescita economica. Eppure all’orizzonte non si scorgono segnali di possibili inversioni di rotta. Qualsiasi tentativo avanzato di provare a riequilibrare la bilancia tra capitale e lavoro viene presto soffocato. La scorsa settimana il Parlamento francese ha bocciato la cosiddetta “Tassa Zucman”, una proposta d’imposta ideata dall’economista Gabriel Zucman che prevede un prelievo minimo annuale del 2% sui patrimoni netti superiori a circa 100 milioni di euro (gettito stimato: 20 miliardi di euro). Gli ereditieri, insomma, possono dormire sonni tranquilli: i loro “sindacati” restano i più influenti di tutti.