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Home » Economia

Aspettando l’eredità: l’economista Michele Bavaro spiega a TPI perché “ai trentenni il lavoro non basta più”

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Case, risparmi, sicurezza economica: per molti giovani, tutto arriva dai genitori. Il ricercatore dell’Università di Oxford illustra la nuova economia dell’attesa, dove il patrimonio familiare vale più del talento

In un’Italia dove il lavoro garantisce sempre meno mobilità sociale e il patrimonio familiare pesa sempre di più sul destino individuale, l’eredità è tornata a essere il principale canale di accumulazione della ricchezza. A parlarne a TPI è Michele Bavaro, economista, dottore di ricerca in Economia all’Università di Roma “Tor Vergata”. Dopo un periodo da ricercatore post-doc a Roma Tre, oggi lavora come Postdoctoral Research Officer al Department of Social Policy and Intervention dell’Università di Oxford, all’interno dell’Institute for New Economic Thinking (Inet). Bavaro da anni studia le disuguaglianze economiche e la distribuzione della ricchezza nel nostro Paese. Con lui abbiamo discusso di come salari stagnanti, precarietà e una tassazione sbilanciata sul lavoro stiano ridisegnando la società italiana, rendendo la nascita — più che il merito — il vero punto di partenza per la ricchezza.

Oggi, nelle economie sviluppate, il modo più sicuro per diventare ricchi sembra essere ricevere un’eredità. È davvero così? Il lavoro non basta più per costruire ricchezza?
«Prendiamo il caso dei figli di Berlusconi o di Del Vecchio, per loro l’assunto che l’eredità porti alla ricchezza è del tutto valido: diverse decine di eredi dopo la morte di questi ben noti industriali sono diventati miliardari. Per persone meno fortunate, il problema non si pone perché non hanno, né hanno mai avuto, la possibilità di entrare nella categoria dei “ricchi”, se consideriamo questa come, ad esempio, l’1% più ricco della popolazione. D’altronde, va detto che l’eredità sta acquisendo sempre maggior peso, stando ai dati, nell’economia italiana. Lo si nota osservando il rapporto tra il valore dei trasferimenti intergenerazionali ricevuti ed il Pil, che è in crescita negli ultimi decenni, un fenomeno che Anthony Atkinson, economista inglese, ha definito come “return of inheritances” poiché questi valori sono stati tendenzialmente in calo nel corso di tutto il Novecento e vedono adesso un “ritorno” su livelli elevati».

In che misura il patrimonio familiare di partenza determina oggi le opportunità di una persona? Stiamo tornando a una società dove conta più dove si nasce che cosa si fa?
«Non si può facilmente misurare questa relazione tra patrimonio, e quindi ricchezza, ed opportunità. Se ci si concentra uno dei canali principali di mobilità sociale, cioè l’istruzione, in particolare quella universitaria, l’accesso all’istruzione universitaria è tuttora molto facilitato per coloro che provengono da famiglie più abbienti. In generale, in assenza di adeguati meccanismi di redistribuzione, anche a livello intergenerazionale, è assolutamente prospettabile che la condizione di partenza, oltre che il luogo di partenza, sia fondamentale per determinare gli esiti degli individui. Un esempio di questo è costituito dai lavoratori migranti, che spesso si ritrovano a svolgere lavori mal pagati e poco garantiti». 

Il lavoro ha perso forza come motore di mobilità sociale. Quanto incidono salari bassi, precarietà e inflazione in questo processo?
«Viviamo in una società in profonda trasformazione, a cominciare dal mercato del lavoro. La distinzione in due classi, operai e capitalisti, è meno chiara se si considera il crescente fenomeno definito da Milanovic, come “homoploutia, cioè la tendenza, in particolare nelle fasce più ricche, a possedere redditi provenienti sia da lavoro che da capitale. Ciò nonostante, in particolare per le fasce più povere della popolazione, il calo dei salari reali, l’aumento dell’incidenza del lavoro povero e la precarietà nelle condizioni contrattuali costituiscono un rilevante peggioramento nelle prospettive di accumulo di ricchezza, a cominciare, ad esempio, dalla (im)possibilità di acquistare una prima casa a fronte di affitti sempre più onerosi».  

Molti giovani vivono “appesi” alla generazione dei genitori, aspettando un aiuto o un’eredità per potersi permettere una casa o una vita stabile. È una tendenza passeggera o un segno strutturale del nostro tempo?
«La generazione di chi è oggi 30-40enne si trova di fronte a difficoltà diverse rispetto a quella precedente, che aveva vissuto una significativa mobilità sociale ascendente. Ciò nonostante, il marcato ricorso al sostegno familiare (si pensi alla cura dei figli) originato dall’assenza di politiche pubbliche adeguate è una caratteristica strutturale dell’economia italiana. Ad esempio, l’Italia è, in Europa, uno dei Paesi col più elevato tasso di proprietà della casa senza un mutuo pendente (in compagnia dei Paesi dell’Est Europa), questo significa che buona parte delle case di proprietà sono ereditate». 

Il sistema fiscale italiano tassa molto il reddito da lavoro e pochissimo le eredità. Che cosa significa in termini di equità e di incentivi economici?
«Oltre a tassare poco le eredità sono tassati poco anche i redditi da capitale, oltre che la ricchezza in senso più ampio. La struttura della tassazione italiana incorpora completamente il paradigma economico del “trickle down”, in cui chi sta in cima alla piramide (classe imprenditoriale) viene favorito in quanto la sua ricchezza genera ulteriore attività economica, opportunità di lavoro etc, chi è alla base della piramide (classe lavoratrice) invece sostiene il poco stato sociale rimasto, pagando le tasse. Purtroppo, oltre ad essere profondamente ingiusto, questo sistema ripercuote le disuguaglianze nel tempo e le amplia, così come verificatosi in paesi come gli Stati Uniti ed il Regno Unito». 

In altri paesi le imposte di successione sono più alte e più progressive. In Italia invece restano un tabù: è una questione culturale, politica o di convenienza?
«Le imposte di successione sono diffuse in molti paesi, ma non in tutti (circa un terzo dei paesi a livello mondiale). L’Italia è tra questi, seppure la tassa di successione si applichi solo a eredità e donazioni superiori al milione di euro e con un’aliquota costante e bassa. D’altronde, sono pochi i paesi dove avviene il contrario, per esempio in Francia, Spagna e Germania, la tassazione è progressiva e con soglie di esenzione più basse. Ciò nonostante la tassa di successione non costituisce un’entrata fiscale principale in nessuno di questi paesi ed anche in periodi in cui la tassazione generale era molto più progressiva, non hanno mai avuto un’alta incidenza sui conti dello Stato. In generale, questo tipo di tassa è sempre stata considerata controversa, l’Italia non costituisce un’eccezione. Sicuramente in Italia, per via del peso costituito dall’istituzione familiare, una imposta di successione “pesante” non avrebbe vita facile, se non disegnata e spiegata adeguatamente».  

C’è chi teme che tassare le eredità penalizzi le famiglie della classe media. È un rischio reale o un falso problema?
«Gli effetti sulla classe media di una tassa di successione dipendono da come questa viene disegnata ed implementata. Ad esempio una tassazione della intera quota di ricchezza trasmessa in eredità, senza alcuna esenzione, e applicando un’aliquota costante (flat tax) avrebbe effetti penalizzanti sulla classe media, seppur positivi per coloro che non sono proprietari di alcuna ricchezza. Se si applicasse invece una tassazione come quella francese, che si applica per successioni superiori ai 100mila euro e con aliquote progressive dal 5 al 45%, gli effetti sarebbero positivi per via della redistribuzione. Un altro punto fondamentale riguarda la possibile tassazione separata delle varie componenti della ricchezza trasmessa in eredità: il patrimonio immobiliare è già tassato annualmente durante la vita dell’individuo, per cui la sua ulteriore e sostanziale tassazione all’atto di successione viene mal vista. Diverso è il caso della ricchezza finanziaria». 

Guardando al futuro, che cosa servirebbe per tornare a una società dove la ricchezza si costruisce più che si eredita? È possibile invertire questa tendenza?
«La tendenza, purtroppo, è un’altra, in quanto i cambiamenti demografici (calo del numero di eredi), uniti a quelli sul mercato del lavoro (precarietà in età lavorativa che si trascina anche in precarietà pensionistica), porteranno inevitabilmente le eredità ad assumere un peso maggiore nella spiegazione delle disuguaglianze della ricchezza. Su questo si guardi il recente studio con Stefano Boscolo e Simone Tedeschi (“La disuguaglianza nella ricchezza in Italia e il ruolo dell’eredità: uno sguardo al futuro”, ndr). L’inversione della tendenza passa da un intervento sulla tassazione delle successioni, ma anche da uno spostamento della tassazione dal reddito da lavoro a quello da capitale nonché ai livelli di ricchezza in generale, in particolare quella finanziaria. Più in generale, ridare dignità al lavoro con aumenti di salari e limitazione dell’uso dei contratti non-standard può aiutare a stabilire una società in cui ci si affida meno all’istituzione familiare». 

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