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“Così l’educazione affettiva può prevenire i femminicidi”

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“Gli uomini vedono l’emancipazione della donna come una minaccia alla propria identità. E reagiscono con aggressività. Insegnare loro che non c’è un genere destinato a dominare l’altro può aiutare a scongiurare le violenze”. Intervista a Elisabetta Camussi, professoressa associata di Psicologia sociale all’Università Bicocca di Milano

Professoressa, diamo una definizione di educazione affettiva.
«Dare una definizione significherebbe stabilire che alcuni contenuti vanno bene e altri no. Ma i contenuti variano a seconda dei contesti in cui si svolge l’insegnamento: non posso insegnare le stesse cose alle elementari e alle superiori. Bisogna semmai definire gli obiettivi: il punto è utilizzare tutte le competenze di ordine scientifico e applicativo per favorire il miglior benessere nei singoli e nelle relazioni. Agendo su dimensioni di ordine cognitivo, affettivo e comportamentale».

S&D

Davvero l’educazione affettiva può far diminuire i femminicidi?
«È ovvio che non basta, da sola, a ridurre la violenza di genere. Certamente, però, per contribuire a prevenire la violenza di genere bisogna inserire nel processo educativo e formativo scolastico un apprendimento sistematico di questo tipo. Ma ciò deve avvenire trasversalmente». 

Cosa intende con «trasversalmente»?
«L’insegnamento dell’educazione affettiva deve essere messo in relazione con le altre discipline. È inutile fare una sessione di educazione affettiva se poi sui libri di testo delle altre materie le donne non compaiono mai, o compaiono sistematicamente in ruoli svantaggiati».

Dunque l’educazione affettiva può essere utile sul piano della prevenzione…
«Certo. Perché si vanno a ridurre le asimmetrie, in parte reali e in parte percepite, tra maschile e femminile. E si vanno a ridefinire le relazioni tra maschile e femminile in un modo che veda questi due ruoli in una posizione paritaria. Significa, cioè, rendere evidente che non c’è un destino naturale che porta l’uno o l’altro a trovarsi in una posizione di dipendenza o di dominanza». 

Il ministro dell’Istruzione, Giuseppe Valditara, ha recentemente varato un piano che prevede dodici incontri all’anno di “educazione alle relazioni” nelle scuole superiori.
«È un punto di partenza che va verso una una direzione che non può non essere presa. Da qua in poi, bisogna costruire. Anche perché negli ultimi 20-30 anni è stata interrotta un’importante tradizione di educazione sessuale-affettiva nelle scuole italiane».

A cosa si riferisce?
«A partire dagli anni Settanta l’attenzione al tema di diritti si andò a riflettere anche nel mondo della scuola. L’ora settimanale di educazione sessuale fu introdotta nei programmi scolastici della scuola dell’obbligo: era gestita dai consultori. Ma negli ultimi decenni quella tradizione è stata progressivamente abbandonata, almeno nella sua sistematicità di applicazione». 

Perché è successo?
«Per una serie di ragioni che hanno a che fare anche con dimensioni di ordine ideologico e culturale».

Nel 2020 lei è stata nominata dal Governo Conte 2 nella task force guidata da Vittorio Colao per guidare la “Fase 2” di uscita dalla pandemia.
«Insieme ad alcune colleghe avevamo elaborato una serie di schede d’azione che riguardavano il contrasto alla stereotipia di genere. Avevamo proposto dei percorsi formativi, che andavano dalla scuola d’infanzia all’università, sull’educazione alla relazione, al rispetto, all’identificazione della differenza tra conflitto e violenza. E sull’educazione finanziaria e alla cura. Era un modo per riprendere l’educazione affettiva mettendola in relazione con la contemporaneità: non possiamo certo riprendere in blocco modelli degli anni Settanta… Ma mi faccia aprire una parentesi».

Prego.
«Non possiamo non tener conto del fatto che viviamo in un’epoca storica in cui, fortunatamente, la possibilità di rivendicare per se stessi dei posizionamenti, sia in termini di genere di appartenenza sia in termini di orientamento sessuale, va progressivamente ad avvicinarsi a quella che dovrebbe essere una situazione tipica della contemporaneità. Le società avanzate sono complesse: le persone sentono più di prima la possibilità di esprimere la molteplicità delle identità». 

Dove vuole arrivare?
«Una delle ragioni per cui è stato progressivamente ridotto lo spazio per l’educazione affettiva-sessuale è che c’è un terrore strisciante secondo cui nominare il tema dell’identità sessuale e delle relative possibilità di posizionamento degli individui possa provocare in quegli stessi individui l’adesione ai diversi posizionamenti, e soprattutto l’adesione a un posizionamento che non sia quello tradizionale del maschile e del femminile». 

È la cosiddetta Teoria del Gender…
«Scientificamente è una scemenza. E, oltretutto, i dati dicono che il numero di persone nel mondo che si dichiarano omosessuali o non binarie corrisponde a una percentuale che non ha certo a che fare con le moltitudini».

Mi racconti cosa viene insegnato, concretamente, in una lezione di educazione affettiva. Facciamo un esempio.
«Prendiamo un caso rivolto agli studenti delle scuole superiori. Ad esempio, si potrebbe raccontare loro la storia di una relazione fra un ragazzo e una ragazza compagni di classe. In questa relazione, il ragazzo ritiene che faccia parte del voler bene alla ragazza controllare tutto quello che lei fa quando non è con lui: con chi passa il tempo, cosa fa sui social… D’altra parte la ragazza coglie in quello del ragazzo un comportamento d’amore. E lo ritiene importante anche perché sa che, se lei non si comporta in quel modo, lui soffre. Nella nostra lezione ipotetica dovremmo accompagnare gli studenti a capire che queste due persone potrebbero essere aiutate a riconoscere che ciò che sta alla base di questa relazione non è il rispetto della libertà dell’altro o dell’altra, ma una dimensione di dipendenza reciproca, che non è assolutamente una maniera sana di costruire le relazioni».

Chi dovrebbe tenere una lezione di questo tipo?
«Nel piano del ministro Valditara dovrebbero occuparsene gli insegnanti. Ma è molto importante che questi docenti vengano accuratamente formati. E che a questo lavoro di formazione si accompagni la possibilità di avere psicologi e psicologhe di riferimento nelle scuole per tutte le questioni che dovessero emergere nell’ambito di queste lezioni».

Le nuove generazioni sono sentimentalmente dis-educate?
«Guardi, più arretriamo come istituzioni dall’entrare in tematiche come queste, più l’effetto che otteniamo è che la formazione sarà lasciata ai vari Youporn e annessi. Glielo dico in modo diretto: o ci svegliamo oppure è inutile che poi ci chiediamo “Com’è possibile che accadano queste cose?”. Se nessuno se ne occupa, poi succedono».

I maschi sono più impreparati delle femmine?
«Per secoli l’unica cosa che potevano fare le donne era occuparsi di relazioni. Questo ha fatto sì che facessero più “pratica” rispetto agli uomini. Tutto qua».

E le generazioni precedenti erano più preparate?
«Le violenze nei confronti delle donne c’erano anche prima. Solo che erano “normalizzate” e non le chiamavamo violenze di genere. Sarebbe folle pensare che oggi ci siano più femminicidi perché gli uomini sono diventati improvvisamente cattivi. Il punto è che è cambiata la relazione tra i generi: oggi l’emancipazione femminile produce come effetto l’aggressività nei confronti della donna che esprime la sua libertà. Ecco: l’educazione affettiva potrebbe in parte prevenire quell’aggressività, accogliendo anche la sofferenza dei ragazzi e degli uomini che sentono la libertà delle donne come una minaccia alla loro identità».

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