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Home » Cultura

La sorveglianza ormai è una cultura, e la reazione deve essere culturale

Immagine di copertina
Foto di David Mark da Pixabay

Cultura della sorveglianza e protezione dei dati: la lezione di David Lyon

Camminiamo nel ventre urbano senza nemmeno più notarle: sono le videocamere di sorveglianza che punteggiano facciate di palazzi, spesso istituzionali ma in altri casi condomini privati o gated-communities urbane cinte da mura e palizzate e presidiate da occhi elettronici. Dispositivi tecnici disposti lungo le arterie stradali principali: sull’ingresso di banche, tribunali, sedi di organi costituzionali e di palazzi del potere. Un occhio che similmente al fiammeggiante Sauron de Il Signore degli Anelli tutto scruta, tutto osserva e tutto fagocita. Ci accompagnano lungo il tragitto, e ormai non ne percepiamo più nemmeno la consistenza invasiva. Rappresentano il rumore di fondo del caos metropolitano, la presenza occhiuta ma quasi rassicurante che sigla un tacito patto per cui cediamo, altrettanto tacitamente, i nostri dati e la nostra riservatezza in cambio della percezione della sicurezza.

David Lyon, sociologo canadese e docente universitario alla Queen’s University, è stato uno dei primi esploratori delle implicazioni culturali, sociali, giuridiche della invasività dei dispositivi di controllo nella vita degli individui e nella sfera istituzionale: i suoi studi hanno interessato Zygmunt Bauman, che con Lyon ha scritto un libro a quattro mani, Sesto potere. La sorveglianza nella modernità liquida (Laterza), e Stefano Rodotà che scrisse la prefazione del classico di Lyon, La società sorvegliata (Feltrinelli). Ed ora la LUISS University Press manda in libreria La cultura della sorveglianza – come la società del controllo ci ha reso tutti controllori, con una introduzione di Gabriele Balbi e Philip Di Salvo, autentica summa del pensiero di Lyon, uscito originariamente nel 2018 e che ripercorre passo dopo passo la costruzione, concettuale ed empirica, della sorveglianza.

In certa misura, andando oltre Foucault, che pure occupa un ruolo non secondario nella riflessione del sociologo canadese, soprattutto per l’emersione della fisionomia della istituzionalizzazione del panoptikon come modulo di performatività del potere sociale, è ad un altro canadese che dobbiamo guardare quando ci relazioniamo con il concetto, culturale, di sorveglianza: Erving Goffman. Goffman è l’inventore del concetto di istituzione totale, quella istituzione che avvolge e controlla capillarmente l’azione umana, la struttura, la conforma e la dirige.

A conclusioni simili, nel generale quadro della digitalizzazione, è pervenuta Soshana Zuboff, nel suo Il capitalismo della sorveglianza (edizione italiana sempre LUISS University press), la quale scavallando l’orizzonte del feticismo dei dati visti come moneta di scambio ha riflettuto organicamente e senza requie sul potere di conformazione culturale e sociale della manipolazione, della ritenzione, del lavoro sui dati. L’approccio culturale ci permette di mettere a fuoco quel concetto, originariamente messo a punto da Gary T. Marx nel suo articolo apparso sulle pagine della rivista The Futurist nell’ormai lontanissimo 1985, “La società della sorveglianza” appunto, e che Lyon ha incessantemente perfezionato, posto sotto stress, ridefinito.

Quelle videocamere che punteggiano l’ecosistema urbano sono società della sorveglianza: i patti per la sicurezza urbana, i sistemi integrati di videosorveglianza si situano alla periferia del mondo sociale del controllo, perché ci riprendono, invadono la nostra privacy, ci istituzionalizzano in certa misura ma non hanno ancora quella capillarità, quella pervasività quasi bio-psichica di penetrazione negli snodi connettivi della nostra essenza interiore che connota invece una cultura. La videosorveglianza è la attualizzazione dei regolamenti sulla peste e sulla architettura del controllo di cui Foucault scrive in Sorvegliare e punire: uno stadio di controllo diffuso ma esibito ed evidente, segnaletico, logistico, esogeno.

Cultura della sorveglianza è al contrario qualcosa che ha molto più a che fare con la nostra dimensione relazionale, intima: in questo senso la lezione, preziosissima, di Lyon è che la nuova sorveglianza è generata, in molti casi involontariamente, proprio dagli utenti. La capillarità interiore dell’autosorveglianza e del sorvegliare gli altri sposta la latitudine della sorveglianza ingenerata dai meccanismi digitali ad uno stadio perfezionato di introiezione dei dispositivi di controllo: proprio negli spunti introduttivi Lyon delinea lo snodo saliente, quello del mutamento radicale dei fattori della produzione nella società digitale la quale va edificandosi, da un lato, seguendo direttrici culturali nuove, di obbedienza, controllo, performance, e dall’altro lato accelera e raffina i sistemi di sorveglianza.

La raccolta continua, massiva, perfezionata di Big data, a mezzo droni, videosorveglianza, siti internet, disarticola quei singoli dati raccolti in un dato ambito e finisce con il produrre un oceano interconnesso di dati che arrivano da ogni direzione, da ogni frammento di socialità e di vita produttiva, per raggiungere nuovi significati. In questo senso, Lyon invita esplicitamente a mappare la cultura della sorveglianza e a unire i fili, per governare razionalmente i processi di destrutturazione dell’insieme culturale: con un acuto aggancio al romanzo di Dave Eggers Il cerchio, Lyon passa in rassegna la formazione ambivalente della cultura della trasparenza totale. D’altronde, il feticismo per la trasparenza spesso si è osmoticamente e simbioticamente unito alla visibilità, e ad un certo narcisismo.

Il “non aver nulla da nascondere” è prisma caleidoscopico che informa d’altronde l’esistente politico, slogan comodo per facili campagne elettorali populiste: la privacy “come furto” o come latente ambiguità che sottrae verità al processo di identificazione del singolo soggetto, sia esso un politico, un dirigente pubblico, un intellettuale, un accademico o un semplice cittadino, con il palcoscenico dello stare in società, esibito agli occhi voraci e scrutanti della massa.

Lyon in questo senso trasla la cultura della sorveglianza dalla conformazione panottica regolamentare classica, su cui Foucault aveva basato molte delle sue riflessioni, e si avvia lungo lo scosceso crinale della sorveglianza performativa, più tipicamente ancorata a linguaggi sistemici digitali: si pensi in questo senso ai codici espressivi, meta-linguistici e intrinsecamente normativi interni dei social network e alle loro regole di condotta, nutrite di un sistema non piramidale ma eterarchico di segnalazioni, notazioni, e di una sorveglianza di massa, diffusa, capillare appunto.

È questa in fondo la visione già deleuziana del controllo come erba infestante: diffuso, minimale, quasi invisibile eppure presente ovunque, azionato da paradigmi psichici e di riconoscimento sociale, e molto spesso determinato da fenomeni di autocensura. Avrete tutti sperimentato la sgradevole esperienza dell’aver subito una qualche forma di sanzione da un social network per averne violato la policy: ebbene, ogni singola sanzione finisce con il determinare la nostra predisposizione a rimodulare il linguaggio, l’utilizzo che facciamo del social stesso, del modo di relazionarci con gli altri utenti. Ma soprattutto ci rende “volenterosi sorveglianti”, perché inizieremo a segnalare anche noi, e a ritenere che sia sconveniente che altre persone possano postare i loro contenuti per cui noi abbiamo dovuto scontare una qualche “pena”.

La forza di questi meccanismi porta alla disarticolazione di potere e politica: nonostante le collaborazioni istituzionali, la cultura della sorveglianza è strutturalmente e fisiologicamente ibrida. Non segue più logiche esclusivamente private, o mercatorie, né logiche garantistiche pubbliche: la sua accelerata performatività, tendente al bianco della cecità, porta a fagocitare quantità sempre più estese di dati e a modellare l’atteggiamento relazionale e sociale in maniera sempre più estesa.

È quella perenne tensione tra democrazia e libertà, di mercato spesso, evocata da Dahl e citata nel volume La società sorvegliata. I nuovi confini della libertà, curato dal Garante per la Protezione dei dati personali, a seguito di un convegno tenutosi nel gennaio 2016. Il punto è che se quella della sorveglianza ormai è una cultura, azionata da dispositivi ben precisi e profondi, la risposta, la reazione non può che essere in primis proprio culturale: la costruzione di raffinati sistemi di protezione dei dati e di tutela della persona non può che accompagnarsi ad una robusta forma di modulazione di una accettata e condivisa, e consapevole, cultura della tutela dei propri dati, della propria intimità.

Questo aspetto è stato colto e riaffermato con grande lucidità dal vicepresidente del Garante per la protezione dei dati personali, la professoressa Ginevra Cerrina Feroni, che in suo intervento del settembre 2020, Innovazione digitale e tutela dei dati personali: tra tecnologia, società e diritto. Traiettorie per un settennato, ha sottolineato la valenza strettamente culturale della protezione dei dati, visto il cambiare spesso radicale del contesto, della sensibilità, degli snodi e delle connessioni che collegano la tutela dei dati, il valore della persona e il mondo sociale.

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