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Home » Cultura

Benedetto Croce, un antidoto contro le volgarità populiste: intervista al filosofo Francesco Postorino

Immagine di copertina
Benedetto Croce

Nel suo ultimo libro Postorino dialoga con 29 studiosi su una delle più importanti figure della storia della filosofia italiana

Trenta studiosi che dialogano sulla libertà. È questo il risultato di un lungo e rigoroso lavoro di ricerca curato dal giovane studioso Francesco Postorino, incentrato sulla figura di Benedetto Croce, e ora pubblicato per i tipi di Mimesis con il titolo L’altro Croce. Un dialogo con i suoi interpreti.

Un lavoro corale che aiuta a comprendere una delle massime figure della storia della filosofia italiana, una voce che, in tutta la sua “geniale incoerenza”, non ha mai smesso di parlare alla nostra contemporaneità.

Postorino dimostra come il pensiero crociano sia ancora vivo e spiega come nell’estetica si possa ritrovare una preziosa categoria dello spirito, salvaguardia della bellezza che si non piega alla religione consumistica e che, soprattutto, “la libertà al singolare esiste soltanto nelle libertà al plurale”.

In un’epoca nella quale regnano i numeri e la materia, lei scrive che è importante leggere Croce, per scoprire il suo desiderio di risvegliare l’assoluto. È davvero possibile parlare ancora oggi di categorie dello spirito?

In Croce ho sempre ammirato lo sforzo di dipingere una peculiare immagine dell’eternità davanti a occhi scettici, utilitaristici e pigri. Nel contesto in cui si affacciava la sua filosofia dello spirito, si alternavano i sacerdoti della scienza empirica e i paladini della “morte di dio”.

Da un lato, quindi, i cuori induriti e allergici ai suoni dell’infinito; dall’altro, i fautori del nulla e di pensieri deboli. Contro di loro, il filosofo della libertà ha protetto il senso dell’eterno, solo che quest’ultimo non ha a che vedere con la metafisica tradizionale.

In Croce, infatti, l’eternità è la storia che avanza. Una storia che non conosce limiti e che spazza via qualsiasi ostacolo. Tutto molto strano se consideriamo che l’eterno, per definizione, sfugge al tempo e allo spazio distraendosi dall’istante. Almeno, questa è la mia opinione.

Il filosofo della libertà, al contrario, identifica l’Assoluto proprio con il divenire. La sua storia è paradossalmente il tempo senza tempo, perché è un a priori che non può mostrarsi tale. Va aggiunto, però, che le categorie da lei menzionate nella domanda proteggono in qualche modo questa storia impazzita. Esse sono quattro: l’estetica, la logica, l’utile e la morale.

Per Croce, dunque, l’uomo di volta in volta riesce ad accarezzare le occasioni della bellezza (estetica), ad esprimere giudizi storici (logica), a fare politica in senso lato (utile) e rivelarsi un soggetto morale (etica).

Il suo spirito può esibire soltanto quattro facce, quattro opere, quattro piccole storie intenzionate a schiacciare le tenebre del nichilismo ma parimenti ogni impulso trascendentale, incluso il Dio dei cristiani.

Lei sostiene che affrontare il pensiero crociano significa anche accogliere l’invito a riflettere sulle parole, confrontarsi con uno stile raffinato e ricercato contro una volgarizzazione dettata dalle mode della cosiddetta “filosofia pop”. Si può parlare di decadenza stilistica oltreché di contenuti?

Certo! Tra l’altro la prosa di Croce, insieme a quelle di Primo Levi e Oriana Fallaci, è la più bella ed emozionante del Novecento. In particolare, leggere Croce significa camminare in nuove praterie con l’entusiasmo dei bambini, interloquire con un’insolita purezza, accompagnare la sua educazione alla sobrietà o approfondire con il silenzio la sua voglia di verità. In lui manca ogni finzione.

Come se l’uomo-Croce si mettesse dietro per lasciar spazio al suo verso. Oggi non è così. Tutto è pop! Domina l’io, l’apparizione mediatica di un Dasein sempre più avversario della cultura. Il 2000 ospita il linguaggio delle scimmie.

Scoppia la noia pornografica in ogni salotto, in ogni aula universitaria, in ogni convegno, ovunque. Quando sono io a mettermi al centro con lo strumento del selfie, niente ha più senso. Non ha più senso parlare; del resto siamo ormai tutti “parlati” da qualcos’altro, magari da un Dio piccolino: il telefonino, le orge di denaro, la comparsa sofista in una gabbia di matti.

Il filosofo di Pescasseroli parlava del respiro eterno dell’arte in quanto dono dell’infinito. Lei, nella sua introduzione, sottolinea però come il postmoderno stia lentamente soffocando questo respiro. In che modo si sta compiendo questo assassinio?

Quel che amo della filosofia di Croce è proprio l’atteggiamento nei confronti dell’arte. Sì, essa è il respiro dell’eterno, l’inedita intuizione che nessuno può portarci via. Quasi una protezione del sogno dal cinismo che si riflette nel qui.

Mi sembra che l’arte contemporanea sia un’altra cosa. Ancora una volta ci troviamo dinanzi a un occhio fenomenico e superficiale che scivola nei giochi del nulla. Si spegne l’arte perché è morto Dio e di conseguenza cadono l’ingenuità, l’innocenza e i profumi altri che dovrebbero toccare l’anima dell’artista.

Chi è l’artista per Croce?

Chiunque. È sufficiente non perdere il contatto con il vento delle attese; basta avere il coraggio di tuffarsi in un’altra dimensione con la voce dello spirito. L’artista è ad esempio quel Morricone che chiede alla luna e alla sua unica compagna una nuova nota. Un’altra nota soltanto, per essere in pace con la sua intimità.

Ma, ripeto, ognuno di noi può essere artista quando riesce a vincere la sua notte e sfiorare i colori dell’alba. Di certo non è artista chi insegue l’applauso osceno di una folla chiusa nel bon ton, oppure il premio dell’ipocrisia, le scemenze che fanno da contorno e tendono a spezzare l’incanto che abita in chi “vive”.

Gli artisti non ci sono più, perché abbiamo soltanto i professionisti della consueta menzogna. Gli unici che forse resistono li scopriamo agli angoli delle stradine. Loro sì che assecondano le sfumature e continuano a cercare, come quel poeta che in pieno anonimato sorride al cielo di Vienna con le labbra dell’altrove.

Nel suo saggio viene proposto un inconsueto quanto interessante parallelo fra Nietzsche e Croce. Può dirci di più?

Prima ho parlato della sua parte positiva. Andrebbe ora riconosciuta quella che considero meno buona. In effetti solo l’arte, in Croce, tocca le corde dell’anima perché non volta le spalle all’infinito. Il suo sistema rischia invece di annegare in un “eterno presente” che non ne vuol sapere dell’immensamente altro.

La sua filosofia, letta in senso unitario, chiude le porte all’essenza, all’Essere puro, a Dio. Anzi, il suo nuovo Dio è manovrato, appunto, da quattro categorie celebrate nel grigio della contingenza.

Nietzsche e Croce sono senz’altro molto lontani. Nondimeno, trovo un non-detto che li avvicina. Le loro filosofie stanno nel qui. Quella di Croce può essere riassunta con il simbolo di un circolo, ovvero con un sistema che ospita le opere per vie orizzontali, nel senso che l’uomo compie un’azione spirituale puntualmente intercettata dalla categoria di riferimento; ma la categoria non è vera trascendenza, non è il vero eterno, è soltanto una maschera, un freddo recipiente che può essere stravolto dalle ombre del nichilismo contemporaneo.

Quest’ultimo passaggio Croce non l’avrebbe potuto condividere, dato che dal suo punto di vista le categorie sono eterne e niente e nessuno potrebbe inquinarle. Tuttavia, sappiamo con quanto cinismo gli odierni artisti uccidono il dono perché hanno cancellato i presupposti, la cornice che permette di giocare con la sensibilità.

L’arte è morta, la filosofia pure, ogni valore è venuto a mancare in quanto è stato aggredito il Dio della verità e dell’amore, il succo della trascendenza, il sudore della croce, i chiodi di ogni sofferenza, il sorriso che piange. Poiché tutto ciò è finito, lo stesso circolo crociano si sgretola e ormai somiglia a quella “ruota ruotante da sola” di cui parla Nietzsche nel suo Zarathustra.

Nel suo testo dialoga con ben ventinove esperti, provenienti da tradizioni politiche e culturali differenti. C’è un incontro che ha particolarmente inciso su di lei?

Ho avuto il piacere di dialogare con il filosofo del diritto Bruno Romano, che è stato mio professore alla Sapienza. Un autore che non c’entra con Croce, né credo abbia mai scritto qualcosa su di lui. Eppure volevo sentirlo. Volevo ascoltare una voce altra, seria e intelligente che non rinuncia al valore dell’uomo e alla relazione socratica fra parlanti.

Penso che il mio percorso di ricerca sia stato in parte segnato dalle sue lezioni. In questo libro, infatti, ho voluto offrire spazio inedito a coloro che non spesso si son misurati pubblicamente con il più autorevole intellettuale del secolo scorso.

Ma altri dialoghi, di cui consiglio la lettura, riguardano la partecipazione di studiosi internazionali che mi hanno aiutato a osservare Croce da una diversa angolatura; mi riferisco in particolar modo a un giovane filosofo giapponese col quale ho provato a capire il senso del crocianesimo entro le dinamiche di quel Paese per noi lontano; poi si parla di un Croce in Russia e ho anche ascoltato l’opinione di uno studioso inglese. Insomma, ho cercato di allargare gli orizzonti e dare riscontro mondiale a un pensatore che lo merita.

Non si sono mai placate completamente le discussioni intorno all’iniziale adesione di Croce al fascismo. Egli applaudì Mussolini durante un discorso a Napoli pochi giorni prima della marcia su Roma e fu tra i senatori a votare la fiducia al governo del duce. Quando capì di aver fatto un errore di valutazione?

Quando si è reso conto che il fascismo era una dittatura e che rischiava di sfociare nel totalitarismo come altre esperienze maturate sempre nella prima metà del Novecento. Croce è stato un uomo di studio e un politico con una vocazione “realista”.

Inizialmente, al pari di Einaudi, interpretava il fascismo come un antidoto contro il pericolo “rosso” e a scapito di ogni disordine e possibile insurrezione; ma non è stato lungimirante come grandi uomini del calibro di Gobetti o Gramsci.

Il suo realismo aveva senz’altro aspetti positivi, ma anche zone buie. A Croce e al suo storicismo mancava quel bisogno di coltivare un ideale di lungo respiro, cioè una proficua utopia che riuscisse a sfuggire alle continue provocazioni della contingenza.

Il Partito Liberale Italiano, del quale Croce fu insieme a Einaudi uno dei fondatori, sebbene nato con una connotazione fortemente antifascista, aveva un baricentro spostato su posizioni conservatrici e monarchiche. Cosa distingue la destra attuale da quella post-bellica?

Vi erano diverse voci in quel partito. Lo stesso Croce, nonostante indubbie ricadute conservatrici, ha cercato di disegnare un profilo “metapolitico” al suo liberalismo, cioè un qualcosa di asettico, senza brivido, scevro di passioni ideologiche, imperniato solo sul desiderio di abbracciare il cammino circolare della storia.

La sua impronta liberale è realista perché vuol toccare i motivi intrinseci del divenire nel suo apparire. Poi troviamo posizioni più progressiste, riunite attorno al gruppo guidato dal fine giornalista Mario Pannunzio, del quale faceva parte Carlo Antoni, un Carneade a cui ho dedicato la mia prima monografia.

Per rispondere alla sua domanda, non mi sembra che attualmente si possa parlare di destra. Sì, ci sono le volgarità populiste, e ogni tanto si presenta qualche princeps con i soldi, ma è solo sporcizia.

Procedendo attraverso un esperimento mentale, lontano dal rigore storico e da interpretare come un semplice divertissement, cosa pensa che approverebbe o riproverebbe Croce dell’attuale maggioranza giallo-verde?

Croce era un uomo molto serio e rigoroso, una persona di vecchi tempi. Cosa avrebbe potuto pensare del “nulla”?

Ma la critica andrebbe estesa alle generazioni susseguite sin qui, a tutti coloro che occupano le poltrone migliori in ogni ambito (politico, culturale, sociale, economico ecc.); uomini e donne, figli e padri del disincanto, i quali hanno violentato la gioia di chi, in queste ore, pretende una “seconda vita” o soltanto un pezzo di pane.

I peggiori sono quelli che possono fare e non fanno. Gli svogliati, gli “impegnati”, i disattenti, quei lupi che non rispondono al dolore manzoniano dei buoni.

In un mondo dove spesso ogni conquista viene data per scontata, crede la cosiddetta generazione millennials possa apprezzare e comprendere il valore concreto della libertà?

Sono vittime innocenti e non hanno nessuna colpa. Solo crediti. Vanno guardati negli occhi, fermati, accarezzati con la mano dello Spirito e con il cuore rinnovato, amati a prescindere per il dono che hanno dentro e che andrebbe sempre incoraggiato.

Serve qualcuno che, senza bugia o mala fede, possa sussurrare alle loro orecchie: “sto dalla tua parte!”. Chi lo fa? Chi si ritira dietro le quinte e mette al centro le loro ansie, dubbi, sogni, tormenti, voglia di vita?

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