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Home » Cultura

Achille Lauro, 40 anni dopo: “La nostra macchina del tempo cinematografica per raccontare la crociera del terrore”

Immagine di copertina
Per gentile concessione della produzione B&B Film

Il dirottamento della nave da parte di un commando palestinese, l’omicidio di un cittadino statunitense di religione ebraica e la crisi di Sigonella tra Italia e Usa: un nuovo documentario ripercorre la vicenda attraverso le voci di ostaggi, protagonisti internazionali e persino di un dirottatore. "Abbiamo lasciato libero il racconto, sospendendo il nostro giudizio", spiegano gli autori e il regista a TPI

Era il 7 ottobre del 1985 quando un commando del Fronte per la Liberazione della Palestina (Flp) dirottò al largo delle coste dell’Egitto una nave da crociera italiana, l’Achille Lauro. Tre giorni di tensioni internazionali, che culminarono con l’omicidio del cittadino statunitense di religione ebraica Leon Klinghoffer, rimasto in sedia a rotelle a causa di un ictus, sfociarono nella crisi di Sigonella, il più grave confronto armato tra due Paesi alleati della Nato, in disaccordo sulla sorte dei terroristi. Quarant’anni dopo, i fatti riemergono grazie ai materiali d’archivio e alle testimonianze dirette raccolte nel nuovo documentario “Achille Lauro – La Crociera del Terrore”, prodotto dalla B&B Film e scritto da Giuseppe Bentivegna, Vania Del Borgo e Raffaele Brunetti e diretto dal regista Simone Manetti, che andrà in onda domani in Francia e Germania su Arte e il 7 ottobre in Italia su Sky Crime, Sky Documentaries, History Channel e Now, in nomination per il Prix Europa a Berlino e in concorso al PriMed di Marsiglia. TPI ne ha parlato con gli autori e con il regista.

Una “macchina del tempo” cinematografica
Il racconto – arricchito dalle voci dei protagonisti, tra cui uno dei dirottatori, Abdellateef Fataier, e le figlie di Leon Klinghoffer, Lisa e Ilsa – si sviluppa, come ci spiega il regista Simone Manetti, su due registri: «Il microcosmo dell’Achille Lauro, con le parti più emotive e personali di ostaggi e terroristi, e il macrocosmo geopolitico, che coinvolge i massimi vertici internazionali». «Non volevamo due racconti paralleli ma abbiamo cercato un equilibrio che ci permettesse di farli intrecciare e che si auto-alimentassero a vicenda», aggiunge Manetti. «Abbiamo voluto creare una sorta di macchina del tempo cinematografica, un racconto in presa diretta, in modo che lo spettatore potesse rivivere le stesse sensazioni di chi allora seguì la vicenda in tempo reale».
Il tutto grazie alla capacità degli autori di rintracciare i protagonisti di allora. Oltre al dirottatore Fataier, che oggi vive in una località segreta dopo aver scontato 20 anni di carcere in Italia e a Ilsa e Lisa Klinghoffer, il film dà infatti voce anche a Reem al-Nimer, vedova dell’allora leader del Flp Abu Abbas, condannato in contumacia dalla nostra magistratura; l’hostess Lucy Cecere, l’unico ostaggio a bordo capace di parlare arabo e per questo costretta dai sequestratori a fare da interprete; le britanniche Michelle Gillen e Louise Barr, parte dell’equipaggio; la turista elvetica Esther Andrist; l’allora consigliere militare del National Security Council della Casa bianca, James Stark; il consigliere politico dell’ambasciata Usa al Cairo, Edmund Hull; il pilota statunitense Roe Massey, alla guida di uno dei caccia che obbligarono l’aereo con a bordo i dirottatori palestinesi ad atterrare a Sigonella; il generale Ercolano Annicchiarico, comandante della base militare in Sicilia e il consigliere diplomatico del premier Bettino Craxi, Antonio Badini.

Testimoni diretti
«Abbiamo fatto ricerche di tutti i tipi, in tutti i modi, in tutti i Paesi», ci ricorda il produttore e co-autore Raffaele Brunetti. «Ma Reem (al-Nimer, ndr) è stata la prima che ho cercato. Prima attraverso un figlio avuto da un relazione precedente al matrimonio con Abu Abbas, poi attraverso la comunità palestinese in Italia. Sembrava quasi impossibile ma alla fine ce l’abbiamo fatta e dopo averne piano piano conquistato la fiducia, grazie a lei abbiamo avuto la possibilità di contattare uno dei dirottatori, che ancora oggi vive in una località segreta». «C’è voluto un po’ per contattare i testimoni americani», ci rivela invece Vania Del Borgo, che ha raccolto le voci provenienti dagli Usa. «Ci tenevamo ad ascoltare le figlie di Leon Klinghoffer, che abbiamo rintracciato grazie alla loro fondazione, entrambe da sempre impegnate in attività di sensibilizzazione contro la violenza politica e il terrorismo». «Abbiamo curato i rapporti con loro per un lungo periodo ma la parte più complicata è stata raggiungerle apposta a New York per mostrare loro il film e in particolare la testimonianza di Abdellateef. Ma loro sono sempre state disponibili», aggiunge Del Borgo. «Poi abbiamo rintracciato anche le due donne britanniche prese in ostaggio e siamo riusciti a convincerle a partecipare al progetto», prosegue la co-autrice del documentario. «Erano parte dell’equipaggio e quando il commando ha sequestrato la nave erano in congedo a bordo ma la loro testimonianze è stata interessante perché erano sempre segregate insieme agli ostaggi statunitensi, dando loro un punto di vista “privilegiato”».
Ma i testimoni non sono soltanto stranieri. «Abbiamo cercato anche di raccogliere voci originali e abbiamo avuto la possibilità di coltivare la fiducia di alcuni dei protagonisti», ci spiega Giuseppe Bentivegna, co-autore del film. «Una su tutte Lucy (Cecere, ndr), il cui percorso personale e professionale le aveva permesso di conoscere l’arabo obbligandola poi a giocare un ruolo molto particolare (interprete dei dirottatori, ndr) nella vicenda», aggiunge il co-autore del film. «Una storia di cui (Cecere, ndr) non aveva mai parlato, non solo ai media ma neanche ai suoi stessi parenti». Il documentario non relega infatti gli ostaggi a mere comparse. «Abbiamo scelto di raccontare una vicenda internazionale, che sembra scritta da uno sceneggiatore hollywoodiano, entrando prima di tutto nel particolare della vita di ognuna di queste persone ma offrendo loro la possibilità di raccontarsi come mai era avvenuto», rimarca Bentivegna. «Abbiamo lasciato libero il racconto, sospendendo il nostro giudizio e dando spazio alle voci dei protagonisti e ai materiali di repertorio».

Uno “spaccato” della storia
Un patrimonio di testimonianze immenso che, condensato in 90 minuti di racconto serrato, ha obbligato gli autori e il regista a operare delle scelte. «Eravamo partiti con l’idea di produrre una serie in tre puntate», ci racconta Del Borgo. «Perciò tanto altro materiale che non abbiamo potuto sfruttare». Le storie infatti sono tante: dalla vittima Klinghoffer, figlio di immigrati ebrei fuggiti dall’Europa orientale e amico d’infanzia del fumettista Jack Kirby, padre tra l’altro di Capitan America, Hulk, Iron Man, dei Fantastici Quattro e degli X-Men; a una passeggera scampata al sequestro perché scesa a terra in Egitto per un’escursione alla volta delle Piramidi, lasciando però i figli a bordo con la madre e la suocera, che era andata in vacanza grazie a una vittoria alla lotteria. «Abbiamo dovuto escludere dalla narrazione le storie dei passeggeri che erano scesi dalla nave e quindi gli alberghi provvisori, le attese, i ritorni in treni, in pullman e con qualsiasi altro mezzo, i parenti che li aspettavano a casa (…)», ci spiega Bentivegna.
Il film però, come rimarca Brunetti, è «uno spaccato» di quegli anni. «Abbiamo dedicato 90 minuti a un piccolo pezzo di storia», aggiunge il produttore e co-autore. Il documentario infatti non può, sempre per motivi di tempo, addentrarsi nelle vicende che precedettero il dirottamento dell’Achille Lauro. «Avremmo dovuto raccontare il bombardamento israeliano del quartier generale dell’Olp a Tunisi e magari spiegare perché proprio nella capitale della Tunisia», prosegue Brunetti, secondo cui le vicende di quarant’anni fa possono «aiutare a incuriosire il pubblico, spingendolo anche a capire quale è la storia di quel luogo e di quei popoli». «In questo momento dove l’attenzione è massima su Gaza, purtroppo stiamo sprecando l’occasione di approfondire, il che sarebbe fondamentale», aggiunge il produttore e co-autore del film. «Le emozioni sono importanti perché spingono le persone ad agire ma bisognerebbe anche approfittare per capire la storia di quanto sta accadendo perché se ne parla tantissimo ma spesso a ondate».

Risonanze con il presente
Nell’intenzione degli autori e del regista infatti il documentario “Achille Lauro – La Crociera del Terrore” vuole essere un approfondimento di un singolo episodio, che però risuona ancora inevitabilmente nelle cronache odierne: dalla strage in corso da due anni ad opera di Israele a Gaza alla reazione delle istituzioni a un possibile attacco dello Stato ebraico alle navi battenti bandiera italiana della Global Sumud Flotilla, che potrebbe riecheggiare il confronto di Sigonella. «Il presente Governo ha abbandonato una storica tradizione diplomatica italiana, volta a vivere il Mediterraneo come la propria casa e a cercare giustizia anche per i palestinesi», commenta Del Borgo. «All’epoca del sequestro dell’Achille Lauro era ancora vivo un processo di pace che il Governo italiano provò a proteggere da questo episodio».
Ma il rimando all’oggi, per il regista Simone Manetti, è al tempo stesso «straordinariamente potente e paradossale». «Uno dei passaggi del film che mi è rimasto nel cuore è la frase pronunciata dall’inviato (della tv svizzera, ndr) Pierre-Pascal Rossi a Beirut, subito dopo i massacri di Sabra e Shatila (del 1982, ndr), che in lacrime dice ai telespettatori: “Quello che state per vedere è qualcosa di tragico e indicibile, che non ha niente a che vedere né con la guerra né con la politica, ma è solo frutto dell’odio”», ricorda Manetti. «È una frase che, trasposta sulle immagini di oggi, resta perfettamente calzante ed è paradossale che lo sia ancora a 40 anni di distanza».

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