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Nelle università italiane c’è un problema di salute mentale fra i dottorandi

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Sono pochi, precari, mal pagati e continuamente valutati sulla base della performance. Così sono sempre di più i ricercatori che soffrono di depressione. È il risultato dei tagli agli atenei e il fallimento del modello ultra-competitivo

«Ora che sono giunto alla fine del mio percorso di dottorato, devo ammettere che per me è stato molto complicato. Il lavoro di ricerca è considerevole, potente, rispettato e ammirato. Ma a volte può essere difficile resistere se non si è preparati o non si sceglie questo percorso per le giuste ragioni. Mi sto riferendo al grave problema della salute mentale dei dottorandi, realtà in aumento, di cui si parla poco perché ci si vergogna, seriamente sottovalutata. Posso riferire su questo perché sono uno di quei dottorandi afflitti da questa condizione. Fortunatamente sono riuscito a uscirne, ma non da solo». 

Con queste parole iniziano i ringraziamenti della tesi di Luca, da poco dottore di ricerca in Scienze chimiche e dei materiali presso l’Università di Pisa, che aveva sospeso il percorso di dottorato a un giorno dalla consegna della tesi, presentando un certificato medico attestante ansia depressiva.

Quello della salute mentale dei dottorandi è un problema sempre più diffuso, non solo in Italia. A differenza di altri Paesi europei, non abbiamo studi approfonditi in materia, tuttavia il fenomeno inizia a portare alla luce una questione non più trascurabile. 

Disagio diffuso
Già nel 2017 uno studio belga pubblicato su Research Policy evidenziava l’alta diffusione di disturbi d’ansia e depressione tra giovani ricercatori, come confermato da numerosi rapporti, anche oltreoceano. Nel 2021, un lavoro svolto nel Regno Unito e pubblicato da Nature ha rilevato un tasso di incidenza di ansia e depressione nei dottorandi significativamente maggiore rispetto ai colleghi professionisti che lavorano in ambiti simili, differenza non correlata a problemi di salute mentale preesistenti. 

A oggi c’è un solo studio a livello mondiale: la quinta indagine biennale sviluppata da Nature nel 2019, in cui si apprende come un dottorando su tre abbia sofferto di ansia e depressione durante il dottorato, intimando l’urgenza di un cambio culturale della ricerca.

La soluzione a questa crisi emergente, fanno presente gli autori, non risiede solo nelle istituzioni (che pure sono chiamate a fare di più), bensì anche nella presa di coscienza che questo malessere è, almeno in parte, la conseguenza di un’eccessiva attenzione alla misurazione delle prestazioni.

La stessa indagine ha anche chiarito alcune delle più importanti fonti di tensione emotiva: l’incertezza in merito alle prospettive di lavoro e la difficoltà a mantenere un equilibrio tra lavoro e vita privata sembrano incombere più di altri fattori. 

Al termine di un lungo percorso, si stima che solo il 6,3% degli assegnisti (secondo i dati del consorzio interuniversitario italiano Cineca) riesca a raggiungere una posizione in regime di tenure-track, percorso che consente l’avvio all’assunzione del ricercatore a tempo indeterminato. Il risultato è una generazione di giovani iperqualificati che si troveranno a doversi reinventare per altri mestieri. 

Sfruttamento
La mancata valorizzazione del dottorato di ricerca al di fuori della carriera accademica, gli scarsi investimenti e la mancanza di posizioni strutturate sono tra i primi punti sui quali è impegnata l’Adi (Associazione Dottorandi e Dottori di Ricerca in Italia), che in una nota di accompagnamento del 2021 propone una serie di raccomandazioni, tra cui l’abolizione e superamento dell’assegno di ricerca attraverso una radicale riforma del pre-ruolo, a favore di un unico contratto di ricercatore e ingenti finanziamenti pubblici, almeno pari a quelli concessi al mondo dell’università e della ricerca dai partner europei.

L’Adi denuncia che l’Italia ha un numero di dottorandi molto basso e destinato a un’ulteriore contrazione; lo status giuridico del dottorando italiano rimane in una condizione di sostanziale ambiguità; la remunerazione rimane perlopiù al di sotto dei livelli dell’Europa del Nord e continentale. 

Secondo i più recenti dati Istat (2018-2020) in Italia il numero del personale universitario è nettamente inferiore rispetto agli altri Paesi europei più sviluppati, così come quello dei dottorati di ricerca per anno (in Italia 9mila, in Germania 28mila).

La causa è una continua riduzione del personale docente dall’inizio del nuovo millennio (12mila unità in meno rispetto al 2009). La conseguenza è un rapporto numerico tra docenti e studenti tra i peggiori in Europa e tra i Paesi Ocse.

I finanziamenti pubblici alla ricerca in Italia sono significativamente inferiori alla media europea, eppure la produttività scientifica dei ricercatori italiani è più elevata di quella dei ricercatori francesi e tedeschi. 

Consapevolezza
Precarietà e mancanza di investimenti rappresentano un problema particolarmente grave, impedendo il pieno sviluppo delle aspirazioni individuali, familiari e collettive dei giovani ricercatori, oltre che il raggiungimento di progettualità e stabilità di carriera.

È quanto confermato anche dal Gruppo di lavoro sulla salute mentale di Adi, nato nel 2022 per aumentare la consapevolezza del tema della salute mentale, eliminare il tabù a essa associato, e dare strumenti concreti per affrontare situazioni di disagio. 

È sulla necessità di un profondo cambio di rotta a livello accademico che lo scorso luglio 2021, alla cerimonia di consegna dei diplomi, tre studentesse della Scuola Normale Superiore di Pisa hanno incentrato il proprio discorso, denunciando la retorica dell’eccellenza che permea il mondo universitario.

«Un’università in cui lo sfruttamento della forza lavoro si esprime attraverso la precarizzazione sistemica e crescente, in cui le disuguaglianze sono inasprite da un sistema concorrenziale che premia i più forti e punisce i più deboli aumentando i divari sociali e territoriali», disse una delle tre studentesse chiamando in causa anche gli stessi docenti, complici di alimentare un sistema malato e di riprodurre dinamiche nocive come la spinta alla produttività, alla competitività e al “publish or perish” (letteralmente: pubblica o muori; è un aforisma che descrive la pressione a pubblicare lavori accademici per avere successo in una carriera accademica). 

Il discorso proseguì evidenziando il divario di genere, quello territoriale tra Nord e Sud Italia, ma anche quello esistente «tra i poli di eccellenza ultra-finanziati e la gran parte degli atenei, determinato dalla diminuzione dei fondi strutturali e dall’aumento delle quote premiali». 

«Mentre docenti e ricercatori diminuivano nel complesso degli atenei italiani – concluse una delle studentesse –, questi aumentavano del 40% nelle scuole superiori come la Normale. In questo contesto noi, i cosiddetti eccellenti, siamo certamente quelli fortunati. Ma quale eccellenza tra queste macerie? Che valore ha la retorica dell’eccellenza se fuori da questa cattedrale nel deserto ci aspetta il contesto desolante che abbiamo descritto?». 

Questa denuncia è l’analisi di una triste declinazione che merita di essere osservata alla luce di un contesto più ampio, ossia la crisi dell’istruzione italiana. L’Italia è il Paese europeo che meno investe nell’istruzione primaria, secondaria e accademica, in rapporto alla spesa pubblica totale, secondo i più recenti dati Eurostat. Quello delle studentesse della Normale non è l’unico “no” alla retorica dell’eccellenza.

Circa due anni fa, la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa ha istituito il premio “Talento all’Opera”, premio in denaro che intende riconoscere il talento e premiare il merito. Premio che tuttavia «rischia di mettere in competizione i dottorandi, ai quali viene già richiesto di essere i migliori tra i migliori», sostiene Francesco, dottorando della Scuola e tra i vincitori del premio, nella lettera con cui ha spiegato all’istituto le motivazioni della sua rinuncia al riconoscimento, chiedendo inoltre che quel denaro possa essere redistribuito.

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