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    “Vi racconto il coraggio di mia madre, che nascose in casa ebrei e soldati inglesi in fuga dai campi di concentramento”

    Foto di Maria Panigai in momenti diversi della sua vita, a destra con il figlio Roberto.

    Premiata dal generale Alexander e amata da tutta la città: ecco la storia di Maria Panigai detta “Blançute”, raccontata attraverso le parole e i ricordi di suo figlio, Roberto Zanini

    Di Romana Allegra Monti
    Pubblicato il 27 Gen. 2020 alle 15:45 Aggiornato il 27 Gen. 2020 alle 16:13

    “Vi racconto il coraggio di mia madre, che nascose in casa ebrei e soldati inglesi in fuga dai campi di concentramento”. Parla il figlio di Maria Panigai

    Nella giornata istituita il 27 gennaio per ricordare le vittime dell’Olocausto, fra polemiche e negazionismi, si finisce spesso per puntare i riflettori più sui carnefici che sulle vittime. Tuttavia, può essere anche una buona occasione per ricordare chi contribuì, rischiando la propria vita, a strappare esseri umani alla conta delle vittime, come fece Maria Panigai, detta “Blançute” (“Bianchina”).

    Nata nel 1906 a Pocenia in Friuli, questa donna energica fece in tempo a vivere (e sopravvivere) ad entrambe le guerre mondiali. Se durante la prima, però, era troppo piccola per svolgere un ruolo attivo, nel corso della seconda, divenuta ormai donna e madre, diede il suo contributo salvando molte vite.

    Come testimoniano il libro I giorni del Cormôr di Pierluigi Visintin e le persone che la conobbero, Maria era una “donna battagliera e coraggiosa, capace di intervenire a difendere persino un soldato tedesco maltrattato da un suo superiore” e di “rispondere per le rime al podestà e al maresciallo dei Carabinieri”, si legge nel testo.

    “Ricordo che una notte mia madre entrò tutta trafelata portando in casa una famiglia di ebrei scappati dalla prigionia e in fuga, senza una meta precisa. Restarono da noi per settimane. Nonostante fossi anche io abituato alla fame, guardandoli mi sentivo veramente fortunato e mi vergognavo di queste sensazioni. Rimasi scioccato dalle condizioni di quelle persone, non sembravano neanche più esseri umani”, racconta a TPI il figlio di Maria, Roberto Zanini, con le lacrime agli occhi.

    “In anni più tranquilli provai a far un conto approssimativo delle persone passate da casa nostra, ma ogni volta mi rendevo conto di dimenticarne qualcuna. Sono state sicuramente più di un centinaio: ebrei, zingari, omosessuali e soldati, gente di tutte le provenienze e di tutte le età. Chiunque scappasse da quella sorte terribile in cerca di conforto e protezione, da noi la trovava”.

    Casa di Maria insomma, era un porto sicuro per tutti.

    “Abbiamo nascosto molti soldati inglesi in fuga dai campi di concentramento, sfamandoli e permettendo loro di raggiungere il luogo nascosto dove gli elicotteri alleati li avrebbero portati via. Non capivamo una parola di quello che dicevano, ma la paura e la fame non hanno bisogno di parole”.

    Il contributo di Maria Panigai fu rilevante al punto tale che il generale inglese Harold Alexander –  al comando di tutte le forze alleate in Italia, nonché protagonista dell’armistizio assieme al generale Dwight David Eisenhower – decise di conferirle una onorificenza: un attestato di ringraziamento, per i molti soldati inglesi messi in salvo, oggi custodito da suo figlio, che ce lo mostra con una punta di orgoglio. 

    Soprannominato “Blancut”, il figlio di Maria, classe 1927, ha ereditato dalla madre la stessa passione e lo stesso spirito battagliero che lo portò ad essere uno dei protagonisti dello “sciopero al rovescio” durante le lotte del Cormor, nel 1950; ancora oggi quello stesso spirito trapela dai suoi esili polsi, che agita con indignazione ogni volta che si accenna a quegli anni e pure a questi. 

    Roberto ha aperto a TPI le porte di casa, offerto un tè caldo e donato ciò che gli resta di più prezioso: i suoi ricordi. Ogni cosa che mostra è un autorevole e dimenticato testimone della storia, come lui. Libri, giornali, attestati e persino una più recente videocassetta dei primi anni Novanta, di una intervista Rai a sua madre Maria, nel salotto di casa, in cui essa racconta – rigorosamente in dialetto friulano! –  come e dove sfamava e nascondeva esseri umani, in quella stessa casa.

    Proprio in quella casetta, in vicolo Chiuso 11 a Pocenia, si continuava a “resistere” anche nel dopoguerra: braccianti e sindacalisti durante le mobilitazioni del Cormor represse sanguinosamente dalla polizia, si riunivano a casa di “Blançute”. In quel periodo era, inoltre, centro di raccolta di viveri che provenivano da ogni centro della Bassa: “Ero poco più che ventenne, ma ricordo che a casa nostra si preparavano razioni ogni giorno e si dava da mangiare a 400 braccianti, lei e la sua casa, dove è rimasta fino alla sua morte, erano un punto di riferimento per tutti”, ricorda Roberto.

    Durante tutta la seconda guerra mondiale e ancora all’indomani dell’8 settembre, “Blançute” continuava a salvare vite umane, sfamando i disoccupati, ma non solo: prese parte (insieme ad altre 400 donne) alla manifestazione del 29 maggio del 1950 contro la repressione dello “sciopero al rovescio” e contro le condizioni disumane in cui versava la popolazione, subendo le furiose percosse della polizia, che le attaccò con manganelli e lacrimogeni.

    “Ci sono persone che sono tornate a trovarci, molti anni dopo la guerra, con figli e nipoti, per far visita a mia madre e ringraziarla. Casa nostra era poverissima, ma non era mai vuota”, dice Roberto.

    Maria non aveva certo potuto permettersi l’istruzione che oggi diamo per scontata, ma era una donna ironica, audace e determinata, che sapeva sfidare l’autorità con estrema tenacia per difendere i più deboli, in un modo che, all’epoca, poco si addiceva alla figura femminile. Una donna d’altri tempi sì, ma di tempi allora ancora sconosciuti: tempi moderni.

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