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Home » Ambiente

Che fine fanno i nostri rifiuti: guida pratica ai termovalorizzatori

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Incenerire o non incenerire? I termovalorizzatori dividono la politica, i cittadini e persino gli esperti del settore. Fra questione ambientale e necessità pratiche. Ecco una guida pratica per capirne di più. Senza pregiudizi

Il 21 maggio 2012 uno sconosciuto informatico di 39 anni fu eletto a sorpresa sindaco di Parma sconfiggendo il favoritissimo candidato del Pd. Il suo nome era Federico Pizzarotti, la sua bandiera quella del Movimento 5 Stelle. Quella prima vittoria a Parma segnò l’inizio dell’onda grillina, che nei successivi cinque anni avrebbe finito per travolgere l’intero Paese.

S&D

Decisiva per il clamoroso trionfo di Pizzarotti fu – a detta di tutti i commentatori – la dura battaglia condotta in campagna elettorale contro la prevista realizzazione di un termovalorizzatore nella periferia nord-est della città. La contrarietà del sindaco, tuttavia, non bastò a evitare che l’iter per l’impianto andasse avanti.

Il termovalorizzatore di Parma – che per i Cinque Stelle non s’aveva da fare – alla fine fu fatto: inaugurato nel 2014 dalla multiutility Iren, brucia tutt’ora 195mila tonnellate di rifiuti all’anno, da cui ricava energia elettrica e teleriscaldamento per circa 35mila parmigiani. Quanto a Pizzarotti, l’ex sindaco – che nel frattempo ha lasciato il Movimento – oggi è il presidente nazionale di PiùEuropa, ma questa è un’altra storia.

Dieci anni dopo il “caso Parma”, lo scorso luglio un’altra battaglia contro un altro termovalorizzatore ha innescato un altro terremoto politico. La storia è nota: alla Camera dei deputati i Cinque Stelle si rifiutano di votare un decreto del governo di cui fanno parte perché contiene il via libera alla costruzione di un maxi-impianto a Roma; quel «no» è l’inizio della fine per l’esecutivo guidato da Mario Draghi; passano dieci giorni e il presidente del Consiglio si dimette aprendo la strada alle elezioni anticipate che saranno stravinte da Giorgia Meloni. 

Oggi, nella capitale, il sindaco Roberto Gualtieri va di corsa: la scorsa settimana il Campidoglio ha annunciato che il bando per il termovalorizzatore sarà pubblicato prima del previsto (cioè prima di agosto) e la multiservizi Acea ha già presentato la propria manifestazione d’interesse per occuparsene.

Il termovalorizzatore si farà entro il 2026, assicura Gualtieri: sorgerà in località Santa Palomba, estrema periferia sud di Roma. Ma prima dovrà superare i quattro ricorsi al Tar presentati dai sindaci di Ardea e Albano laziale e da un paio di comitati civici. Perché questi impianti sono così: dividono le forze politiche, ma anche i cittadini e persino gli esperti del settore. 

Termovalorizzatori: quanti sono e dove sono

In Europa se ne contano 502: il Paese che ne ha di più è la Francia (117), seguita dalla Germania (100). In Italia ce ne sono 36, quasi tutti al Nord: il più potente è quello di Brescia, targato A2A  e attivo dal lontano 1998, che incenerisce 750mila tonnellate di rifiuti all’anno e genera teleriscaldamento per 130mila cittadini ed energia elettrica per 200mila famiglie.

Al Sud spicca l’impianto di Acerra, in provincia di Napoli, anch’esso gestito da A2A: ha una capacità di raccolta pari a 730mila tonnellate di rifiuti all’anno. Quello in programma per Roma, invece, dovrebbe bruciare 600mila tonnellate annue promettendo così di risolvere una volta per tutte l’atavico problema dello smaltimento dell’immondizia capitolina. 

Nel 2019 – ultimo dato disponibile fornito dall’Ispra – in Italia sono state incenerite complessivamente 5,5 milioni di tonnellate di rifiuti urbani: la regione di gran lunga più attiva è stata la Lombardia, che con i suoi tredici impianti (oggi, dopo lo spegnimento di quello di Sesto San Giovanni, sono dodici) ha bruciato 1,9 milioni di tonnellate. Al secondo posto c’è l’Emilia-Romagna, con otto termovalorizzatori e 950mila tonnellate. Al terzo la Campania, dove il solo impianto di Acerra ha smaltito 692mila tonnellate. 

Secondo Eurostat, in Italia finisce incenerito il 19% dei rifiuti prodotti. Si tratta di una delle percentuali più basse fra le principali economie del continente: tedeschi e francesi viaggiano sopra il 30% e la media Ue è del 27%, ma i picchi si riscontrano in Scandinavia, dal 60% della Svezia al 58 della Finlandia, fino al 53% della Danimarca, dove si trova il famoso termovalorizzatore di Copenaghen, che ha addirittura una pista da sci sulla propria copertura.

In questi Paesi – che hanno anche buoni livelli di raccolta differenziata – le discariche sono ormai un lontano ricordo. Anche in Italia abbiamo un discreto grado di differenziata – ricicliamo il 51% dell’immondizia contro una media Ue del 48% – ma conferiamo ancora troppo in discarica: il 20% del pattume. Siamo lontani dall’obiettivo del 10% entro il 2035 fissato da una direttiva comunitaria.

Come funziona un termovalorizzatore

I termovalorizzatori si chiamano così perché “valorizzano” il calore sprigionato dalla combustione dei rifiuti trasformandolo in energia destinata ad altri usi. Appartengono in tutto e per tutto alla famiglia degli inceneritori – servono a smaltire la quota residua di rifiuti che sfugge alla raccolta differenziata – ma, appunto, aggiungono all’attività di incenerimento la produzione di elettricità che confluisce nella rete nazionale. In alcuni casi generano anche energia termica per alimentare il teleriscaldamento che arriva nelle case e negli uffici del luogo. 

L’immondizia mista viene bruciata in un mega-forno a una temperatura non inferiore agli 850 gradi per evitare la formazione di diossine. I fumi caldi emanati dalla combustione vengono convogliati verso una caldaia che contiene acqua: quest’ultima passa così in pochi attimi allo stato gassoso, cioè diventa vapore. Il vapore, a sua volta, alimenta una turbina: ed è così che si genera l’energia elettrica. Negli impianti più evoluti il vapore viene utilizzato anche per riscaldare l’acqua che scorre nei tubi del teleriscaldamento. 

Prima di finire nel camino del termovalorizzatore ed essere rilasciati in atmosfera, i fumi derivanti dall’attività di incenerimento vengono depurati passando attraverso quattro macro-filtri, che eliminano ceneri leggere, diossine, furani, metalli pesanti e altre sostanza nocive per la salute. Dopo la combustione, sul fondo del forno restano le cosiddette ceneri pesanti: queste hanno in media un volume pari al 25% di quello dei rifiuti bruciati. Vengono raffreddate utilizzando acqua e nella maggioranza dei casi sono destinate a essere riciclate come materiale in campo edile.

Termovalorizzatori: pro e contro

Chi è favorevole ai termovalorizzatori ne sottolinea prima di tutto l’ineluttabilità. Piacerebbe a tutti – è il ragionamento – evitare di bruciare l’immondizia, ma dato che riciclare il 100% dei rifiuti è pura utopia e che l’alternativa più concreta sarebbe la discarica, l’unica via è affidarsi a questi impianti: altrimenti – si fa notare – il risultato è che ci si trova costretti a pagare qualcun altro per farsene carico e andare a carbonizzarli nel suo inceneritore. I pro-termovalorizzatori rimarcano anche gli elevati standard di abbattimento delle emissioni inquinanti, oltre al fatto che le autorità ambientali sono informate in tempo reale sulla composizione chimica dei fumi che escono dai camini. Infine, ricordano che incenerire rifiuti conviene anche al portafogli, visto che il teleriscaldamento prodotto bruciando la spazzatura porta in media a bollette meno costose (anche se lo scorso autunno, con il caro energia, ci sono stati aumenti notevoli). 

Da parte sua, il fronte del No ai termovalorizzatori sostiene invece che questi impianti sono dannosi per l’ambiente perché le polveri ultrasottili sfuggono anche ai filtri di depurazione più moderni. Non solo: gli inceneritori disincentivano la raccolta differenziata; se l’immondizia è destinata a essere bruciata, che bisogno c’è di scomporla con cura? Quanto alla ineluttabilità dei termovalorizzatori, l’obiezione più diffusa è che bisogna tendere verso il traguardo “rifiuti zero” e che esistono soluzioni di smaltimento molto più innovative, dall’ossicombustione (cioè la combustione attraverso l’ossigeno) alla pirolisi (un processo di decomposizione termochimica). Infine, i contrari a questo tipo di impianti rimarcano spesso come in molte zone d’Europa si stia andando verso il loro superamento: la Francia, ad esempio, ne ha spenti nove negli ultimi sei anni.

E l’Unione europea, che dice? Nel luglio 2021, rispondendo a un’interrogazione parlamentare, il vicepresidente della Commissione Valdis Dombrovskis ha affermato che «un’attività economica arreca un danno significativo se comporta un aumento significativo della produzione, dell’incenerimento o dello smaltimento dei rifiuti»: per questo – ha spiegato Dombrovskis – la realizzazione di termovalorizzatori non può essere finanziata con i fondi del Next Generation Eu. Sembrerebbe un verdetto di sostanziale bocciatura. Eppure lo scorso 31 marzo, il commissario per l’Ambiente Virginijus Sinkevičius, in visita ufficiale a Roma, ha assicurato il sostegno politico di Bruxelles al progetto sui rifiuti del sindaco Gualtieri: «Il termovalorizzatore è nel modello europeo», ha proclamato Sinkevičius. «La Commissione europea non si oppone, perché lo hanno tutte le grandi città europee. Quello che va considerato sono le dimensioni dell’impianto, che non possono essere tali da uccidere lo sviluppo della raccolta differenziata. La cosa importante per l’Unione europea è che il conferimento in discarica vada verso lo zero».

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