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Home » Ambiente

“In Italia non c’è giustizia per l’Ambiente, così rischiamo il collasso”

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Credit: AGF

La causa contro lo Stato italiano per inazione climatica si è chiusa con un nulla di fatto: il Tribunale di Roma si è dichiarato privo di giurisdizione senza neanche entrare nel merito. Colloquio con Marica Di Pierri, portavoce dell’associazione A Sud, co-promotrice dell’azione legale

Non c’è giustizia per il clima. Il primo grado di giudizio del primo contenzioso climatico, denominato “Giudizio Universale”, contro lo Stato Italiano si è concluso nelle scorse settimane con un nulla di fatto: la causa è stata ritenuta inammissibile per difetto di giurisdizione. 

S&D

Così il Tribunale di Roma ha evitato di entrare nel merito delle richieste presentate dai 203 attori, di cui 24 associazioni e 179 individui. «Secondo il Tribunale nessun giudice italiano può tutelare i diritti fondamentali minacciati dalla inefficienza delle politiche climatiche dello Stato, come avvenuto in molti Paesi europei», ha commentato l’associazione A Sud, primo ricorrente. «È una scelta di retroguardia. Continueremo a batterci per vedere le nostre istanze accolte e il diritto al clima riconosciuto».

«Dopo più di due anni e mezzo di udienze e migliaia di pagine di documentazione prodotta, era lecito aspettarsi che il Tribunale entrasse nel merito del giudizio. La scelta – si legge nel comunicato di A Sud – stride particolarmente con l’oggetto stesso della causa, che riguarda l’urgenza di un’azione efficace contro i cambiamenti climatici, la cui accelerazione rappresenta una minaccia per il godimento di tutti i diritti umani riconosciuti e tutelati dal nostro ordinamento». 

«Con la causa si chiedeva al giudice, considerata l’esistenza di un preciso dovere dello Stato nell’agire efficacemente per rispettare gli impegni assunti in ambito climatico e tutelare i diritti fondamentali minacciati dagli stravolgimenti climatici, di riconoscere che l’insufficienza delle politiche climatiche in campo minaccia il godimento dei diritti fondamentali e, di conseguenza, di imporre allo Stato di rivedere al rialzo gli obiettivi di riduzione delle emissioni». 

Della sentenza ha parlato Marica Di Pierri, portavoce di A Sud e co-coordinatrice della campagna Giudizio Universale: «Si tratta di un’occasione persa per le istanze sociali e ambientali nel nostro Paese, ma la volontà di non esprimersi del Tribunale di Roma non comporta che non ci siano i presupposti per una condanna dello Stato. Non possiamo negare di essere delusi dall’esito del processo ed è certo che impugneremo la decisione». 

Secondo il team legale che ha seguito la causa, composto da avvocati e giuristi appartenenti alla Rete Legalità per il clima, «la sentenza, per un verso, si pone palesemente in contrasto con la Carta dei Diritti fondamentali dell’Ue e con la Corte europea dei diritti dell’uomo, strumenti di tutela che non contemplano limiti di accesso al giudice nelle questioni climatiche, come già riconosciuto dalla giurisprudenza di numerosi Stati europei. Per altro verso, è anche contraddittoria, perché, da un lato, riconosce la gravità e urgenza letale dell’emergenza climatica, dall’altro, però, statuisce che in Italia non esisterebbe la possibilità di rivolgersi a un giudice per ottenere tutela preventiva contro questa situazione, nonostante siffatta tutela sia stata riconosciuta dalla Corte costituzionale. Pertanto – sostengono gli avvocati – sussistono tutti i presupposti per impugnarla». 

Una sentenza che rende ancora più allarmante il quadro generale. Sul fronte climatico, infatti, l’Italia è inadempiente. A sostenerlo con forza è un report di A Sud, a firma di Filippo P. Fantozzi, Filippo Garelli e Marica Di Pierri, dal titolo “Inerzia al potere – Gli obblighi climatici e la persistente negligenza dello Stato italiano”, pubblicato prima della sentenza. La situazione anno dopo anno è in grave peggioramento. Il dossier lo dimostra chiaramente evidenziando come il nostro Paese, al pari di tanti altri, non stia facendo abbastanza. 

Il documento, che si concentra sugli aggiornamenti relativi al biennio 2022-2023, mette in evidenza i punti critici riguardanti le lacune normative, l’insufficienza dei processi di partecipazione pubblica, il varo di politiche volte ad incentivare il consumo di fonti energetiche fossili e l’ostruzionismo esercitato dalle istituzioni italiane nei confronti delle politiche climatiche dell’Unione europea.

«Lo scenario delineato – scrivono i relatori sul loro sito dove il report è consultabile – è  preoccupante: i livelli attuali di riduzione delle emissioni, le limitate ambizioni per il futuro e le politiche varate di recente, incompatibili con l’azione climatica, evidenziano un impegno complessivo ben lontano da quanto raccomandato dalla comunità scientifica e da quanto previsto dagli standard europei vigenti». Ne abbiamo parlato con Di Pierri. 

Nel vostro report “Inerzia al potere” evidenziate che l’Italia è inadempiente, e la situazione sta peggiorando. In che modo?
«Il problema non nasce oggi: le politiche climatiche italiane sono da sempre insufficienti a centrare gli obiettivi dell’Accordo di Parigi. Tuttavia negli ultimi anni la tendenza a mettere in un angolo la questione climatica si è acuita. L’Ispra, che è l’ente statale per la Protezione e Ricerca Ambientale e non un’associazione ecologista, definisce gli scenari di riduzione delle emissioni al 2030 “poco promettenti” e registra un trend emissivo in crescita, destinato a confermarsi nei prossimi anni. Ancora oggi nel nostro Paese quasi l’80 per cento dell’energia prodotta proviene da combustibili fossili e secondo il Fondo monetario internazionale abbiamo destinato nel solo 2022 l’enormità di 63 miliardi di dollari a sussidiare le fonti fossili». 

Siamo in ritardo anche dal punto di vista legislativo?
«Sì, anche a livello legislativo scontiamo un grande ritardo: l’Italia è uno dei pochi Paesi europei a non disporre di una legge quadro sul clima, che si è rivelata in molti Stati uno strumento fondamentale per la riduzione delle emissioni. E c’è di più: dall’avvento del nuovo governo l’Italia ha contestato in sede europea l’adozione di riforme fondamentali per la decarbonizzazione, in settori chiave come trasporti, industria ed edilizia. Una posizione di retroguardia che preoccupa molto». 

Cosa dovrebbe fare il nostro Paese? Quali sono gli standard europei che l’Italia dovrebbe rispettare?
«La nuova direttiva Ue prevede una riduzione delle emissioni di Co2 di almeno il 55 per cento entro il 2030, per azzerarle nel 2050. Questo target andrebbe però declinato sui singoli Paesi dell’Unione, tenendo conto anche delle emissioni storiche e delle capacità tecnologiche e finanziarie. In altre parole, tenendo in conto il principio di equità. Ne consegue che l’Italia dovrebbe prevedere un taglio ben superiore al 55 per cento». 

Può farlo?
«Certo! Ad esempio smettendo di legare il nostro sistema energetico mani e piedi ai combustibili fossili, a partire dal gas; incentivando molto di più le rinnovabili e modelli di produzione diffusi come le comunità energetiche, riducendo e poi azzerando i sussidi ambientalmente dannosi. Il problema è che non vuole farlo». 

Scrivete che «se le emissioni nazionali dovessero continuare al ritmo attuale, l’Italia esaurirebbe il carbon budget a sua disposizione già nel 2025». A cosa andiamo incontro nel concreto?
«L’Ipcc (il Gruppo intergovernativo dell’Onu sul cambiamento climatico, ndr) continua a lanciare allarmi circa l’inadeguatezza delle misure in campo a livello globale. Altre analisi indipendenti, come Climate Action Tracker, mostrano che l’Europa è ben lontana dalla sufficienza. L’Italia non fa eccezione, anzi. Se tutti i Paesi riducessero le emissioni quanto l’Italia andremmo incontro a un aumento medio delle temperature globali a fine secolo che si avvicina ai +3 gradi. Il doppio della soglia di sicurezza indicata dalla comunità scientifica». 

Gli eventi climatici estremi hanno provocato in Italia 22mila vittime e 111 miliardi di euro di danni tra il 1980 e il 2022. La situazione è in peggioramento? Cosa ci aspetta?
«Potenzialmente, a politiche vigenti, andiamo dritti verso un collasso del sistema climatico, che con un territorio vulnerabile come quello italiano rischia di produrre conseguenze drammatiche in termini di eventi estremi, che saranno sempre più frequenti e distruttivi: siccità, desertificazione, innalzamento dei livelli del mare, ondate di calore e cosi via. Basta guardare gli scenari elaborati periodicamente dal Cmcc, il Centro Euro Mediterraneo sui cambiamenti climatici, per per avere idea di cosa ci attende». 

Cosa ne pensate del piano Mattei proposto dalla Meloni?
«Perché, qualcuno ha capito nello specifico di cosa si tratta? È tutto molto nebuloso, ma quel che ci pare di vedere con chiarezza è che dietro questa etichetta si nasconda un nuovo, più raffinato, colonialismo energetico. La retorica del governo ricalca in tutto e per tutto le ambizioni di Eni, che è chi fa le politiche energetiche italiane da sempre. L’obiettivo pare più che altro, per dirla brutalmente, far arrivare dall’Africa tanto gas e pochi migranti. Poi, anche metodologicamente, il fatto che il presidente dell’Unione Africana ha affermato che gli Stati africani non sono stati consultati la dice lunga sul carattere “paritario” e “non predatorio” (per usare le parole della presidente del Consiglio) del piano». 

Avete ancora fiducia nella politica in tema di cambiamenti climatici? Perché non si fa quello che chiedete?
«Partiamo dalla seconda: non si fa quello che andrebbe fatto perché gli interessi in campo sono fortissimi. Si pensi solo alle carbon mayor e all’influenza che hanno nelle Conferenze Onu sul clima, per dirne una. Sulla prima domanda invece mettiamola così: abbiamo fiducia nella società civile più che nella politica. Tutti i grandi cambiamenti politici sono avvenuti grazie a forti spinte sociali. Puntiamo su questo: lavoriamo per creare consapevolezza tra le persone e per fare pressione sulle istituzioni, nelle scuole e nelle piazze come nelle aule di tribunale».

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