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Home » Ambiente

Qatarstrofe ambientale: Fifa e Doha hanno già vinto la Coppa dell’inquinamento

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Gli organizzatori si vantano di aver messo su un Mondiale a impatto (quasi) zero. Ma fra erba “climatizzata”, acqua desalinizzata ed emissioni di CO2 la storia non è proprio così

Pochi chilometri a nord di Doha, lontano dalle luci scintillanti degli stadi di ultima generazione costruiti per i Mondiali in Qatar, sorge una riserva di 425mila metri quadrati di erba, grande circa 40 campi da calcio. “Una porzione può essere raccolta, caricata su un camion, portata in uno stadio e impiantata a terra pronta per essere calpestata dai giocatori in sole otto ore”, spiega Mohamed Al Atwaan, che ha lavorato come project manager allo Stadium 974, uno dei quattro impianti all’interno del perimetro della capitale. Una equipe di giardinieri sta curando intensivamente la riserva da febbraio per essere pronta a qualsiasi emergenza possa coinvolgere i manti erbosi tra un match e l’altro del torneo.

L’inverno deve ancora arrivare nel torrido Qatar, quindi a partire da settembre ogni campo è stato continuamente sottoposto a un getto di aria fredda per garantire che l’erba potesse crescere nel Paese dello stato del Golfo, prevalentemente desertico. Imitare la stagione fredda in un luogo dove le temperature possono raggiungere i 40 gradi in autunno è solo uno dei trucchi che gli esperti hanno introdotto negli ultimi anni per migliorare la qualità dei terreni di gioco. “Le condizioni meteorologiche e il clima insieme al livello dei criteri prestazionali che ci siamo prefissati rendevano estremamente impegnativo sviluppare il prodotto di cui avevamo bisogno, ma ci siamo riusciti”, ha affermato Haitham Al Shareef, un ingegnere civile sudanese che ha lavorato sui campi del Qatar dal 2007.

Gli organizzatori si sono rifiutati di dire quanto sia costato al Paese ospitante il programma per tenere efficienti tutti i tappeti erbosi, ma oltre ai costi puramente economici – parliamo di un ricco esportatore di gas che ha speso miliardi in infrastrutture nell’ultimo decennio per prepararsi all’evento – ci sono quelli ambientali, e non sono trascurabili.

A secco

Il Mondiale è stato organizzato nel mese di novembre, forse il periodo dell’anno più difficile per far proliferare l’erba, poiché il clima passa dall’estate torrida all’inverno mite. Per farsi trovare pronto, il Qatar ha trasportato 140 tonnellate di semi di erba ogni anno dagli Stati Uniti su aerei climatizzati, e i campi sono stati innaffiati con acqua di mare desalinizzata.

Il Paese è infatti uno degli stati più “asciutti” al mondo, con un tasso di aridità inferiore soltanto a quello della vicina Arabia Saudita e della costa nordafricana, ma avrà bisogno di 10mila litri d’acqua al giorno per ciascuno degli otto stadi e 136 campi di allenamento allestiti per il Mondiale. L’unico modo per raggiungere questa quota è stato intensificare il processo di desalinizzazione del Mare del Golfo, ma ciò ha un enorme impatto ambientale, in termini di combustibili fossili utilizzati per realizzare la trasformazione, oltre che per l’ecosistema marino. Quello caratterizza il Golfo Persico è infatti uno dei più colpiti in tutto il mondo, a causa di variabili tra cui il cambiamento climatico, le attività di estrazione di petrolio e gas e i disturbi antropici costieri.

Le attività di produzione di acqua non salata sono uno dei principali fattori di inquinamento marino a livello regionale e internazionale. Oman, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Qatar, Bahrein e Kuwait rappresentano un hotspot delle attività di desalinizzazione, in quanto sono responsabili di quasi il 50% della capacità globale del processo. Nonostante abbiano risorse di acqua dolce molto ridotte, i Paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo (Gcc) ne sono tra i maggiori consumatori al mondo. Gli Emirati Arabi Uniti hanno ad esempio uno dei tassi di consumo di acqua pro capite più alti, circa 500 litri al giorno, il 50% in più rispetto alla media globale.

Ma con l’aumento della popolazione, l’industria idrica della regione sta affrontando crescenti pressioni. “Se si guarda alla capacità di desalinizzazione in tutto il Gcc, il volume di acqua che scorre è circa quattro volte la quantità di acqua che scorre lungo il Tamigi”, sostiene Will Le Quesne, direttore del programma per il Medio Oriente per il Centro britannico per Scienze dell’ambiente, della pesca e dell’acquacoltura. Maryam Rashed Al Shehhi, professore di infrastrutture civili e ingegneria ambientale presso l’Università Khalifa negli Emirati Arabi Uniti, inquadra il problema: “La desalinizzazione è la nostra principale fonte di acqua dolce. È una regione molto arida e le precipitazioni annuali sono diminuite”.

Sconquasso marino

La costruzione di impianti ad hoc, l’aspirazione dell’acqua e la reimmissione in mare del prodotto di scarto, che prende il nome di “salamoia”, incidono però negativamente sulla biodiversità degli ecosistemi marini. Gli impianti di desalinizzazione si basano infatti su acqua proveniente da diverse fonti, ad esempio acqua di raffreddamento utilizzata nelle centrali elettriche, falde acquifere, acque sotterranee e, più comunemente, dal mare aperto.

A completamento degli impianti vengono installati enormi tubi sottomarini per aspirare l’acqua. Questo passaggio sconvolge il fondale marino provocando la risospensione delle particelle sedimentate, inclusi gli inquinanti. La perturbazione e l’alterazione del fondale marino portano alla distruzione dell’habitat, alla morte di specie marine, al rilascio di inquinanti tossici dai sedimenti e all’aumento della torbidità.

Una volta che le strutture sono in funzione, enormi volumi d’acqua vengono pompati: si stima che questi siano il doppio delle quantità di prodotto desalinizzato. Si “perde” quindi metà dell’acqua. Nel sistema vengono però introdotti anche molti organismi, che vanno a schiantarsi contro gli schermi interni dei tubi di aspirazione o vengono trascinati fin dentro gli impianti, se sono abbastanza piccoli da superare i filtri. Il trascinamento e gli urti provocano loro lesioni gravi o la morte. Non sono da sottovalutare inoltre le conseguenze dello smaltimento del fluido di scarto prodotto dall’intero processo. La salamoia che ne deriva è caratterizzata da elevata salinità e contiene diversi minerali disciolti: solitamente viene sversata nuovamente in mare, uno degli approcci di smaltimento meno costosi.

L’alta concentrazione di sale del liquido, che è almeno 1,6–2 volte superiore a quella dell’acqua di mare (in media 35 grammi ogni litro), influenza organismi marini come plancton, microbi e specie bentoniche. Inoltre, alcuni studi hanno dimostrato che l’aumento della salinità interrompe le capacità di regolazione osmotica di alcuni organismi marini con conseguente disidratazione e morte. Acqua più salata vuol dire anche una minore concentrazione di ossigeno disciolta nel mare: questo stato di ipossia aumenta la mortalità di massa di mitili, molluschi bivalvi e pesci, causa inoltre l’interruzione della funzionalità della barriera corallina, l’invasione di meduse e la perdita di biodiversità.

A seconda della tecnologia utilizzata, la salamoia può superare la temperatura media dell’acqua di mare da 1,37 a 1,82 volte: un fattore che altera gli equilibri biologici inibendo la crescita degli organismi acquatici. Il processo di dissalazione attraversa varie fasi, quindi il prodotto di scarto contiene sostanze chimiche e agenti diversi. Ci si può trovare dentro cloro, coagulanti cationici e anionici, acidi, anti-incrostanti, metalli pesanti e agenti antischiuma.

Una volta scaricate in mare, queste sostanze chimiche sono considerate inquinanti tossici a tutti gli effetti. In ultimo, la salamoia è altamente alcalina a causa di carbonati e solfati di calcio, il che porta a cambiamenti significativi nei parametri fisico-chimici dell’acqua. Per motivi puramente geografici, il Mare del Golfo risente più di altri mari dell’intero processo: è poco profondo e semichiuso, c’è quindi una debole circolazione dell’acqua (oltre a un limitato apporto di acqua dolce proveniente dall’entroterra). Le specie sensibili che lo abitano sono perciò sotto costante minaccia di estinzione.

La partita dei gas serra

I Paesi del Golfo Persico hanno una capacità di desalinizzazione di undici milioni di metri cubi al giorno: la regione della penisola araba ospita circa 213 impianti attivi, altri 51 dovrebbero entrare in servizio nel prossimo futuro. Gli Emirati Arabi Uniti (22%) e l’Arabia Saudita (45%) sono i due maggiori contributori alle attività di desalinizzazione nell’area. Riyad “vanta” 30 impianti che bruciano circa 300mila barili di greggio al giorno.

La maggior parte di questi sono alimentati a petrolio o gas, funzionanti con la tecnologia di “trattamento termico”, che raccoglie il vapore dall’acqua bollente e lo condensa, o con la più moderna tecnologia dell’osmosi inversa, che fa invece affidamento sull’elettricità prodotta utilizzando il gas naturale per alimentare le pompe che spingono l’acqua attraverso membrane molto sottili, filtrando il sale.

Tra le due, la desalinizzazione termica è la tecnologia predominante a causa dell’abbondanza di combustibili fossili nell’area. Le emissioni, oltre alla distruzione dell’ecosistema marino, sono un altro grande tema del dibattito sull’inquinamento dovuto ai Mondiali di Qatar 2022.

Forti del design “compatto” del torneo, che vede tifosi, giocatori e addetti ai lavori concentrati in un unico luogo – con la distanza più lunga tra gli stadi che misura 75 chilometri – gli organizzatori si sono sempre vantati di aver organizzato un evento a basso impatto ambientale. Ignorando il fatto che una strategia di questo tipo abbia previsto la costruzione di ben otto stadi in una città come Doha dove, fino a poco prima della manifestazione, ne bastava uno solo.

Simon Chadwick , professore di sport ed economia geopolitica alla Skema Business School di Parigi, che ha visitato più volte il Qatar nell’ultimo decennio (da quando il Paese si è visto assegnare la competizione dalla Fifa) afferma: “Anche se si tratta di un torneo a emissioni zero in quel periodo di quattro settimane, bisogna tenere conto dell’inquinamento derivante dalle costruzioni. Ci sono camion, gru e scavatrici che da anni creano enormi buchi nel terreno, sollevando sabbia e polvere. Dire che in questo mese non si inquinerà è falso perché c’è un periodo di 12 anni durante il quale ho la sensazione che non ci sia stata alcuna compensazione del carbonio”.

Considerando i rapporti secondo cui gli organizzatori stanno “climatizzando” l’erba e irrigando i campi in un modo “inquinante e incredibilmente dannoso per l’ambiente” per migliorare la qualità del tappeto erboso, Chadwick manifesta il timore che Qatar 2022 sia, fondamentalmente, un esercizio di greenwashing. Secondo il Qatar l’intera edizione emetterà circa 3,6 milioni di tonnellate di Co2. Più del doppio dei Mondiali in Russia del 2018 e – per usare un termine di paragone – più di quanto emette l’Islanda in un anno.

“Non siete credibili”

Tuttavia Carbon Market Watch (Cmw), un’organizzazione senza scopo di lucro che lavora a stretto contatto con l’Unione Europea, ha esaminato i piani degli organizzatori e afferma che le emissioni previste sono state probabilmente sottostimate. “Sarebbe bello vedere l’impatto sul clima delle Fifa World Cup essere drasticamente ridotto, ma l’affermazione di neutralità del carbonio che viene fatta semplicemente non è credibile”, spiega Gilles Dufrasne di Cmw, autore dell’analisi.

Al centro della denuncia c’è un calcolo secondo il quale le emissioni di carbonio create dai nuovi stadi potrebbero essere fino a otto volte superiori alle cifre contenute nell’analisi del Qatar. Il rapporto afferma che i padroni di casa hanno effettuato le loro stime distribuendo le emissioni di uno stadio per la durata dell’evento, un approccio che gli attivisti descrivono come “problematico”. “Questi stadi – si legge – sono stati costruiti appositamente per la Coppa del Mondo. Il futuro uso estensivo di così tanti impianti in uno spazio geografico così piccolo è incerto, soprattutto considerando il fatto che Doha avesse un solo stadio importante prima che fosse assegnato il Mondiale”.

Ulteriori critiche riguardano i piani di assorbimento delle emissioni con un “vivaio di alberi e torba” su larga scala menzionato dal “Supreme Committee for Delivery & Legacy”, il comitato responsabile della fornitura dell’infrastruttura necessaria, della pianificazione e delle operazioni del paese ospitante che lavora a stretto contatto con il Comitato organizzatore per far raggiungere al Qatar gli “obiettivi di sviluppo nazionale” e “creare un’eredità duratura per il Paese, il Medio Oriente, l’Asia e il mondo”.

Il rapporto Cmw mette in dubbio la stabilità del progetto affermando che qualsiasi assorbimento è “improbabile che sia permanente in questi spazi verdi artificiali e vulnerabili”. Tra gli attori in gioco c’è un grande assente, la Fifa, in enorme difficoltà per le critiche arrivate su diversi fronti per l’assegnazione della competizione a uno Stato come il Qatar, dallo sfruttamento della manodopera che ha costruito stadi e infrastrutture allo sfregio dei diritti umani che va in scena nel Paese.

Alla Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici del novembre 2021 in Scozia l’organo che governa il calcio mondiale presentò la sua strategia climatica, impegnandosi a ridurre le emissioni dello sport e a raggiungere la neutralità del carbonio entro il 2040.

L’associazione diretta da Gianni Infantino ha contestato l’analisi di Cmw affermando che sono in atto “piani dettagliati e modelli di business” per l’utilizzo degli stadi dopo il torneo, ma non ha saputo spiegare la logica di far ospitare il Mondiale a un Paese in cui il calcio non sarà altro che un pretesto per mettersi in vetrina che non lascerà alcuna eredità positiva sul piano politico, sociale, e soprattutto ambientale.

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