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Home » Ambiente

Jeremy Rifkin a TPI: “L’Età del Progresso ad ogni costo è finita”

Immagine di copertina
Jeremy Rifkin. Credit: Karl-Josef Hildenbrand/dpa

“Non è il pianeta a essere in pericolo ma l’essere umano.Il dogma dell’efficienza e della crescita ci ha portato sull’orlo dell’estinzione. Per salvarci abbiamo solo una via: dire addio al consumismo e fare pace con la natura". Intervista all'economista guru dell'ambientalismo

Uragani, incendi, siccità, alluvioni. Cosa sta accadendo sul pianeta Terra?
«La Terra si sta rinaturalizzando. Le conseguenze catastrofiche del cambiamento climatico non sono altro che reazioni naturali di un pianeta che segue le regole della termodinamica in un ecosistema in cui tutto è interconnesso. Abbiamo a lungo pensato di poter costringere la natura ad adattarsi ai bisogni della nostra specie, ma ora siamo noi a doverci adattare a un mondo imprevedibile. Oppure affronteremo la sesta estinzione di massa della storia della Terra».

L’essere umano ne è consapevole?
«La coscienza umana sta cambiando di fronte agli sconvolgimenti portati dalle pandemie e dal surriscaldamento del clima. Questi fenomeni distruggono la vita delle persone e l’economia: per noi sono un problema, ma non lo sono affatto per il nostro pianeta, che si sta semplicemente rinaturalizzando».

Come siamo arrivati a questo punto?
«È l’ideologia del progresso ad ogni costo ad averci portato sull’orlo dell’abisso ambientale. Abbiamo dato per scontata una concezione del tempo e dello spazio in cui la natura è considerata uno scomodo ostacolo alla realizzazione del progresso e alle esigenze dell’economia. Ma adesso il pianeta, rinaturalizzandosi, ci presenta il conto. E l’unico modo che abbiamo per salvarci è quello di sostituire l’Età del Progresso con una nuova forte visione, quella dell’Età della Resilienza».

In cosa consiste questa svolta?
«La grande rivoluzione consiste nel passare dall’idea che la natura deve adattarsi all’uomo a una per cui è l’uomo a doversi adattare alla natura. Ciò rimette in discussione la concezione baconiana che considera la Terra come una risorsa riservata al consumo esclusivo della nostra specie. Per superare questa concezione errata si prepara un nuovo e inedito paradigma scientifico, che una nuova generazione di scienziati chiama “Cases”, ovvero “Sistema complesso per l’adattamento ecologico e sociale”».

Cosa comporta?
«Considerare la natura come fonte di vita, anziché come risorsa, e percepire la Terra come un sistema complesso che si auto-organizza ed evolve verso mete sconosciute, con spirito di adattamento».

Su quali valori si basa l’Età del Progresso?
«Nell’Età del Progresso la chiave è il concetto di efficienza, allo scopo di ottimizzare lo sfruttamento e il consumo delle ricchezze del pianeta in tempi sempre più rapidi e a ritmi sempre più elevati: un’efficienza che comporta l’eliminazione di tutti i fattori di ridondanza che possano rallentare l’ottimizzazione delle attività economiche. Così il principale ruolo del governo e dell’economia è quello di gestire la natura come una proprietà: la nostra missione è diventata estrarre senza sosta pezzi del mondo naturale, mercificarli e consumarli, per poi smaltirli».

E nell’Età della Resilienza?
«Nell’Età della Resilienza, al contrario, si premiano la ridondanza e la diversità: negli ecosistemi, la diversità protegge dal collasso e dalle perturbazioni. Alla comparsa dell’Homo Sapiens meno dell’1% della biomassa totale della Terra veniva utilizzato dal genere umano; nel 2005 ne stavamo usando il 24%; nel 2050 si potrebbe arrivare al 44%, lasciando agli altri esseri viventi solo il 56% della produzione primaria netta della fotosintesi sul pianeta. Forse stiamo finalmente cominciando a renderci conto che non abbiamo nessun dominio sul pianeta e che è la natura ad avere il controllo totale della vita sulla Terra».

Nel suo libro “L’Età della Resilienza” lei ricorda che questa volontà di dominio sulla Terra deriva dalla promessa fatta, secondo la Bibbia, da Dio ad Adamo ed Eva, per cui loro e i loro eredi avrebbero avuto «il dominio sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo, sul bestiame, e su tutti i rettili che strisciano sulla terra».
«Quella promessa, purtroppo presa tuttora sul serio, al di là delle sue connotazioni teologiche, ha condotto al collasso dei nostri ecosistemi planetari. Peraltro nemmeno essa autorizzava i discendenti di Adamo a bruciare combustibili fossili immettendo nell’atmosfera gas a effetto serra. Né a riempire i mari di microplastiche. Né, ancora, a distruggere migliaia di chilometri quadrati di foresta amazzonica per alimentare il commercio internazionale di carne. Quel dominio poteva essere esercitato in maniera più rispettosa della vita degli altri animali e dell’ambiente».

Lei sostiene che stiamo cominciando a renderci conto del problema.
«Per le giovani generazioni i parametri stanno cambiando: dall’idea di crescita a quella di fioritura, dal capitale finanziario a quello ecologico, dal Pil al “Benessere interno lordo”, dal consumismo alla eco-tutela, dalla linearità alla circolarità, da economie di scale integrate verticalmente a filiere del valore distribuite orizzontalmente: insomma, dalla Globalizzazione alla Glocalizzazione; e dalla geopolitica alla politica della biosfera».

Nel suo libro lei riprende la controversa questione del paradosso dell’empatia, secondo cui lo sviluppo di una coscienza empatica è stato reso possibile da un consumo sempre maggiore di energia e risorse naturali con un conseguente drastico deterioramento della salute del pianeta. Come se ne esce?
«Dobbiamo cambiare totalmente il nostro rapporto con le risorse naturali: gli agenti naturali sono assai più potenti di noi. La nostra specie si stava preoccupando di aver messo in pericolo il pianeta, ma ora deve prendere atto che è lei stessa a essere in pericolo».

Non è una visione un po’ troppo catastrofica?
«La catastrofe è all’orizzonte, ma possiamo evitarla, se diventiamo resilienti al cambiamento in corso. Dobbiamo abbandonare le false idee di progresso ed efficienza e abbracciare una nuova visione in cui l’uomo e il pianeta siano in simbiosi e non in guerra».

I concetti di progresso ed efficienza sono universalmente considerati come positivi: lei attua invece un capovolgimento di questi valori.
«L’Età del Progresso, un tempo considerata sacrosanta, è ormai al tramonto: l’efficienza ci intrappola nell’incessante sforzo di ottimizzare l’espropriazione, la mercificazione e il consumo dei doni della Terra con l’obiettivo di accrescere l’opulenza della società umana. Il fondatore dell’ambientalismo moderno Samuel P. Hays ha riassunto la questione così: “Gli apostoli del Vangelo dell’efficienza subordinavano l’aspetto ambientale a quello utilitario. Nella loro visione, la conservazione del paesaggio naturale e dei siti storici restava subordinata all’incremento della produttività industriale”. La retorica dell’efficienza nei primi decenni del XX secolo, ispirata da menti eccelse come Charles Darwin e Frederick Taylor, oltre a giustificare lo sfruttamento più selvaggio dell’uomo sull’uomo, divenne un comodo espediente per schivare l’interrogativo fondamentale: quello sulle responsabilità del genere umano nei confronti della natura».

Parliamo di produttività. Perché è diventata così importante nei nostri stili di vita?
«La produttività è solo un insieme di inputs e outputs, associati specialmente alla tecnologia, che accompagnano pratiche commerciali. Sia la produttività che l’efficienza sono processi lineari, non circolari, e sono limitati nel tempo: hanno enormi effetti negativi sulla natura ma sono positivi per la produzione e il mercato».

Facciamo qualche esempio.
«L’esaurimento dei nutrienti nel suolo, la distruzione delle foreste, il riscaldamento dell’atmosfera, l’avvelenamento dei mari: sono tutte esternalità negative, ma aumentano efficienza e produttività e permettono alle aziende sfruttatrici di incrementare i propri profitti, aumentando l’entropia sul pianeta. Negli ecosistemi biologici, invece, la produttività non si misura in termini di efficienza ma di rigeneratività e di adattività».

Con il “Paradosso del Comma 22” del Capitalismo, lei spiega che l’aumento di efficienza si traduce in riduzione dei posti di lavoro e consumatori più indebitati.
«E anche in meno equità, uguaglianza, diritti politici, moralità. L’efficienza è stata esaltata come una legge di natura al di sopra di tutto, come se mettere in discussione questo concetto significasse scontrarsi con le leggi immutabili del mondo naturale. Purtroppo per noi, è vero esattamente il contrario!».

Nella sua visione l’impatto che la nostra specie ha avuto sulla Terra è stato catastrofico…
«Un secolo fa la superficie terrestre era ancora selvaggia per l’85%, oggi lo è per meno del 23%, e si prevede che nei prossimi decenni scomparirà del tutto. Le responsabilità di tutto questo sono della comunità scientifica e dei professionisti dell’economia e della finanza, che hanno sostenuto la narrazione per cui l’economia globale e il libero mercato sono la garanzia migliore per promuovere gli interessi di tutti. Oggi vediamo che non è affatto così: il pianeta e gli ecosistemi sono stati sacrificati alla logica del profitto, non del benessere collettivo».

Nel suo libro lei annuncia una grande svolta imminente sul pianeta.
«Si tratta dell’evoluzione naturale del rapporto fra la nostra specie e il pianeta. Per la maggior parte del nostro tempo sulla Terra abbiamo trovato il modo di adattarci continuamente alle soverchianti forze della natura. Poi, diecimila anni fa, all’inizio dell’Olocene, abbiamo intrapreso una nuova rotta, costringendo prometeicamente la natura ad adattarsi a noi.

Con l’ascesa dei grandi imperi agricoli idraulici, seimila anni fa, e più recentemente con le rivoluzioni industriali del tardo medioevo e dell’età moderna – che abbiamo ribattezzato “civiltà” – abbiamo esercitato un crescente dominio sul mondo naturale. Ebbene, adesso è venuto il momento di invertire questa tendenza e tornare ad adattare la nostra specie alla natura. Questo grande cambiamento sarà la prova della capacità della nostra specie di sopravvivere e rifiorire su un pianeta che si sta rinaturalizzando».

Cosa significa “coscienza biofilica” nella nuova visione che lei propone?
«Per ironia della sorte, la nostra specie, a differenza dei nostri simili, è un giano bifronte: possiamo distruggere tutto, ma siamo anche potenzialmente i detentori della soluzione. Possediamo una qualità speciale nei nostri neurocircuiti: l’impulso empatico.

Negli ultimi anni, ad esempio, le giovani generazioni hanno iniziato a estendere l’impulso empatico ai nostri amici animali, che fanno parte della nostra stessa famiglia evolutiva. Nell’Età della Resilienza dovremo ripensare il modo in cui educhiamo i nostri figli: lasciare che la biofilia naturale, cioè l’impulso incorporato nel corredo genetico di un bambino, possa essere espresso e prosperare in età prescolare e continuare a maturare durante la scuola, nel lavoro e nella vita sociale. Sta già succedendo».

Dove?
«Negli Stati Uniti 5.726 scuole hanno recentemente introdotto corsi di scienze ecologiche nel loro programma didattico; sono frequentati da 3,6 milioni di bambini. Gli studenti stanno imparando cos’è il cambiamento climatico e si stanno impegnando per combatterlo nella pratica con attività quali il monitoraggio della fauna selvatica, l’osservazione dei cambiamenti meteorologici, della siccità e delle condizioni del suolo, la pulizia dei bacini idrologici, la misurazione dell’impronta di carbonio e il ringiovanimento degli ecosistemi locali. Questo è ciò che i biologi chiamano “coscienza biofilica”».

Come sta cambiando il senso della vita per le nuove generazioni?
«Stiamo arrivando a capire che le nostre vite – la biosfera – sono estensioni delle sfere della Terra: l’idrosfera per l’acqua, la litosfera per minerali e nutrienti, l’atmosfera per l’ossigeno. Esse ci attraversano continuamente sotto forma di atomi e molecole che si installano nelle nostre cellule, nei tessuti e negli organi, come prescritto dal nostro Dna, per poi essere sostituiti a intervalli precisi durante la nostra vita.

Qualcuno forse si sorprenderà nel sapere che la maggior parte dei tessuti e degli organi che compongono il nostro corpo si rinnovano periodicamente: ad esempio, lo scheletro si rinnova ogni dieci anni, il fegato ogni trecento o cinquecento giorni. Ancora più sorprendentemente è il fatto che il nostro corpo lo condividiamo con molte altre forme di vita: batteri, virus, protisti, archaea, funghi».

E quindi?
«Noi crediamo che le specie e gli ecosistemi della Terra si fermino ai margini del nostro corpo ma in realtà esse fluiscono continuamente dentro e fuori di noi. Ognuno di noi è una membrana semipermeabile in cui si estendono le sfere della Terra».

E ciò come impatta sul “senso della vita”?
«Dovrebbe mandare in frantumi la falsa convinzione che la nostra specie sia separata dalla natura che ci circonda. Numerosi orologi biologici regolano i nostri ritmi corporei interni e li adattano continuamente a quelli circadiani, ai ritmi della marea, ai cicli stagionali e annuali che scandiscono la rotazione della Terra e il suo passaggio intorno al sole. Apparteniamo alla Terra con ogni più piccola cellula. Il Sé autonomo dell’Età del Progresso sta cedendo il passo al Sé ecologico dell’Età della Resilienza».

Lei auspica anche un ripensamento della nozione di governance e introduce il concetto di bioregioni transnazionali. Che trasformazione comportano nell’organizzazione della società e della politica rappresentativa?
«Nell’Età della Resilienza la governance passa dalla sovranità di una nazione sulle risorse naturali alla tutela sovranazionale degli ecosistemi regionali, che non conoscono confini nazionali. Accade già: ad esempio, cinque stati del Nord-Ovest statunitense e cinque province degli adiacenti territori canadesi hanno creato la bioregione sovranazionale dei grandi laghi denominata “Regione economica del Pacifico nord-occidentale” per custodire i propri ecosistemi comuni, il proprio “capitale naturale”.

Ci avviamo verso un futuro in cui si abbattono i muri costruiti artificialmente nel mezzo di ecosistemi omogenei e si passa dalla rappresentanza politica indiretta (democrazia rappresentativa) a forme di rappresentanza diretta quali le assemblee paritarie transnazionali di cittadini, percepite come più adeguate a reggere l’impegno a tutto campo richiesto per la preparazione e l’adattamento ai disastri climatici sempre più virulenti e alle loro conseguenze».

Come funzionano queste assemblee di cittadini?
«Sono selezionate casualmente per esercitare vari livelli di potere politico e decidere l’allocazione dei fondi, la condivisione dei presidi di sicurezza, la prevenzione, il soccorso in caso di disastri climatici, i sistemi della scuola pubblica, la polizia di prossimità, il dispiegamento di infrastrutture resilienti e la gestione di servizi ecosistemici locali. Attualmente le assemblee di cittadini operanti nel mondo sono oltre 3mila».

Cosa possiamo fare per proteggere e valorizzare il capitale naturale delle bioregioni?
«Niente: lasciarlo in pace. E adattarci alla natura e alla sua evoluzione. Nella nuova Età della Resilienza l’efficienza cede il passo all’adattività portando con sé profondi cambiamenti nell’economia e nella società».

È ragionevole pensare che la generazione che ha causato il problema permettendo la privatizzazione dei beni comuni possa proporre soluzioni?
«Io credo molto nella “Greta Generation”: è animata da una nuova coscienza biofilica che ormai comincia ad affermarsi nelle scuole ri-orientandosi verso nuovi principi in sostituzione di quelli vecchi».

Quante probabilità ci sono che l’uomo ci riesca?
«Se ci sono altre strade, io non le vedo. In un momento in cui la famiglia umana teme profondamente per il proprio futuro, l’Età della Resilienza porta con sé una nuova e potente narrazione che, se si affermasse, potrebbe gettare le basi per un futuro radicalmente diverso, riportandoci nell’ovile della natura. Dando alla vita una seconda possibilità di fiorire sulla Terra».

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