Il direttore di Greenpeace Italia Giuseppe Onufrio a TPI: “Rischiamo di scomparire ma siamo ancora ostaggio delle industrie fossili e delle armi”
“La causa intentata negli Usa per zittirci rischia di farci sparire. Trump protegge i super-ricchi, anche a costo di distruggere la natura. L’Europa è ipocrita. E il piano energetico del Governo Meloni è una barzelletta”. La denuncia del direttore di Greenpeace Italia Giuseppe Onufrio a TPI: "Invece di tutelare l'ambiente e la salute, la politica obbedisce alle lobby”
Direttore Onufrio, come denunciato da Greenpeace, ogni anno finisce in mare una quantità pari a 12 milioni di tonnellate di plastica. La Giornata Mondiale dell’Ambiente 2025 è dedicata proprio alla lotta a questo genere di inquinamento: cosa possiamo fare per contrastarlo?
«Bisogna ripensare, almeno nella parte più pericolosa, i sistemi produttivi. Una quota di questa plastica, non lontana dal 40 per cento, è usa e getta. La troviamo ovunque perché molto economica, comoda e dotata di tanti altri pregi ma la usiamo per pochissimo tempo. È un materiale pressoché indistruttibile e in questo senso servono politiche di controllo più serie sulle varie sorgenti di queste plastiche».
Quali?
«La prima fonte sono ovviamente i rifiuti perché si tratta, in gran parte, di contenitori. Poi abbiamo le microplastiche contenute nei vestiti, le cosiddette microfibre, di fatto prodotti petroliferi, che entrano facilmente in acqua attraverso il lavaggio dei capi. Infine una quota non marginale, pari circa al 20 per cento, proviene dalle attività di pesca, cioè dalle reti abbandonate che per molti animali si trasformano in vere e proprie trappole e che purtroppo troviamo anche in alcune aree marine protette».
Il problema però non è confinato agli abissi ma ci riguarda tutti direttamente.
«Vorrei ricordare che il tema dell’inquinamento da plastica nei mari è nato ormai quasi 30 anni fa con gli spiaggiamenti di cetacei in Scandinavia perché, come anche altri animali quali ad esempio le tartarughe, le balene confondono i sacchetti di plastica con le prede. È questo il punto: quando finisce in mare, questa plastica entra nella catena alimentare. L’impatto è globale perché, purtroppo, in cima alla filiera ci siamo noi. Non solo ritroviamo le microplastiche nel nostro corpo ma questi materiali sono anche capaci di passare attraverso la placenta, inquinando di fatto persino i nuovi nati».
La Giornata Mondiale dell’Ambiente 2025 cade esattamente due mesi prima della ripresa della quinta sessione dell’Assemblea ambientale delle Nazioni Unite, prevista ad agosto a Ginevra, in Svizzera, dove gli Stati membri si riuniranno per la sesta volta dal 2022 allo scopo di continuare a negoziare un trattato mondiale per porre fine all’inquinamento da plastica. Perché non si riesce a trovare una soluzione globale a un problema che tocca tutti?
«Perché la produzione di plastica, che è l’altra faccia della medaglia dell’industria dei combustibili fossili, è in mano a poche multinazionali interessate a produrre sempre più materiali di questo genere. È una situazione paradossale».
Ci spieghi meglio.
«Le aziende petrolifere sanno che la transizione energetica procederà comunque e che prima o poi il ricorso ai combustibili fossili, soprattutto nei settori dei trasporti e della generazione di elettricità, sarà destinato a ridursi. Perciò si stanno attrezzando per triplicare i volumi di plastica, il che significa continuare a estrarre petrolio ma, anziché lavorarlo per produrre benzina, gasolio e carburante, intendono servirsene per realizzare materie plastiche».
È un’unica lobby?
«Di fronte a un’emergenza sia ambientale che sanitaria, perché riviste scientifiche come The Lancet pubblicano sempre più articoli sui preoccupanti effetti delle microplastiche sulla nostra salute, un piccolo gruppo di multinazionali, dotate di enorme potere, cerca da un lato di ritardare la transizione energetica e dall’altro di inondare il mercato di plastica, aggravando ulteriormente la crisi. È una presenza visibile anche nelle trattative internazionali sulla lotta ai cambiamenti climatici, a cui partecipano decine, a volte centinaia di lobbisti. Con la plastica accade esattamente la stessa cosa».
A proposito di lobby e paradossi: dopo le ultime due edizioni organizzate dalle petrocrazie degli Emirati Arabi Uniti e dell’Azerbaigian, la prossima Conferenza Onu sul Clima (Cop30) si terrà a novembre a Belem, in Brasile, alle porte dell’Amazzonia, dove i lavori per l’organizzazione del vertice hanno creato diverse polemiche, soprattutto in materia di deforestazione. Non è singolare?
«È una contraddizione simbolica ma il vero problema è che, nonostante il ritorno al potere del presidente Lula, in Brasile la deforestazione continua, soprattutto a favore della produzione, diretta o indiretta, di carne. La foresta infatti viene abbattuta o per far posto ai pascoli oppure per coltivare soia transgenica con cui alimentare gli animali».
Questo è un altro aspetto che ci riguarda tutti.
«Una dieta basata sempre più sul consumo di carne è una dieta che fa male al pianeta ma anche alla nostra salute. Sarebbe meglio tornare a un regime alimentare mediterraneo, che prevede meno carne e di maggiore qualità, e politiche che promuovano stili di vita più sostenibili. Ovviamente però c’è chi rema contro, perché ci guadagna, e tenta di bloccare ogni spinta al cambiamento sia dal punto di vista politico sia colpendoci direttamente».
Greenpeace è sotto attacco in prima persona.
«Abbiamo lanciato la campagna “Time to Resist” perché una grande azienda del settore dei combustibili fossili (la texana Energy Transfer, ndr) ci ha fatto causa negli Stati Uniti per (diffamazione, violazione di domicilio, turbativa, associazione a delinquere, ndr) una vicenda che era già stata rigettata da una Corte federale statunitense. Ma (attraverso la filiale Dakota Access, ndr) l’impresa si è rivolta a un tribunale statale del Nord Dakota, dove ha una delle sue sedi, e qui la giuria popolare ha dato loro ragione, condannandoci (Greenpeace Inc, Greenpeace Fund e Greenpeace International, ndr) in primo grado a pagare 660 milioni di dollari di risarcimento».
Perché?
«È un tentativo di silenziare un’associazione come Greenpeace che si è impegnata a dare solidarietà alla tribù dei Sioux del Nord Dakota durante le proteste contro un oleodotto (Dakota Access Pipeline, DAPL) che trasporta il petrolio più sporco del mondo, quello prodotto dagli scisti bituminosi, fino alle raffinerie più a sud (in Illinois, ndr)».
E adesso?
«Ora aspettiamo la sentenza ma questo è un caso emblematico. In italiano le chiamiamo “cause temerarie” ma la definizione in inglese chiarisce meglio gli obiettivi di queste iniziative: “Strategic Lawsuit Against Public Participation (SLAPP)”, letteralmente “Cause strategiche contro la partecipazione pubblica”. Lo scopo è tacitare chi, come Greenpeace, muove critiche e promuove attività a favore di un mondo migliore mentre chi fa soldi distruggendo il pianeta non si accontenta più delle attività di lobby presso i governi e gli organismi internazionali ma minaccia direttamente le associazioni. Così Greenpeace rischia di sparire, perché ovviamente non ha a disposizione cifre simili».
Intanto alla Casa bianca governa un miliardario negazionista del cambiamento climatico come Donald Trump, appoggiato dai colossi di Big Tech guidati da Elon Musk, Jeff Bezos e Mark Zuckerberg e dalle principali aziende petrolifere. Quali conseguenze avranno le politiche promosse nei suoi primi mesi alla guida degli Usa con il ritiro dall’accordo di Parigi sul clima; la cancellazione delle politiche a tutela dell’ambiente; la promozione degli investimenti in carbone, petrolio e gas e l’esenzione dei combustibili fossili dai dazi; l’approvazione delle trivellazioni in Alaska; l’apertura alla pesca industriale nelle aree protette del Pacifico; e l’annuncio di nuove esplorazioni a scopo estrattivo nei fondali oceanici?
«Ha adottato una linea di distruzione della natura, che ora (con il cosiddetto One Big Beautiful Bill, ndr) si accompagna al tentativo di ridurre le tasse ai più ricchi mostrando quanto il potere sia concentrato nelle mani di pochissime persone, disposte a distruggere tutto pur di mantenere i propri privilegi. Emergono però anche situazioni paradossali».
Che intende?
«Il paradosso dell’amministrazione Trump è che da un lato cerca di difendere l’economia fossile, mostrando un legame diretto con la Russia di Vladimir Putin che dipende sostanzialmente dalle esportazioni di combustibili fossili e nucleari, e dall’altro intraprende una guerra commerciale contro la Cina sulle terre rare e altri minerali, metalli e materiali critici per le fonti rinnovabili, concludendo ad esempio un accordo in questo senso con l’Ucraina e minacciando addirittura la Danimarca di occupare la Groenlandia».
Come se lo spiega?
«Il punto è che la transizione ecologica continua ad andare avanti, malgrado tutto. Voglio ricordare che negli ultimi mesi la California, certamente non uno stato trumpiano, ha puntato sulle batterie industriali capaci di accumulare l’eccesso di produzione elettrica da fonte solare ed eolica. Ormai, durante le ore di buio, questi impianti danno più energia alla rete di quanto non facciano il gas e l’idroelettrico messi insieme mentre da un anno, per diverse ore al giorno, la California si alimenta solo con le rinnovabili. Eppure negli ultimi due o tre anni, anche grazie alla precedente amministrazione Biden, la classifica degli stati americani con più rinnovabili ha visto il Texas, capitale del petrolio e stato tradizionalmente repubblicano e trumpiano, scalzare il primato della California. In cima alla classifica dei territori che ricorrono di più all’eolico per produrre elettricità troviamo stati trumpiani come Texas, Iowa, Oklahoma e Kansas (dove il magnate ha ottenuto oltre il 55 per cento dei consensi alle ultime presidenziali, ndr). Insomma, siamo in un momento molto particolare di cambiamento, anche geopolitico».
Cos’è cambiato?
«Oggi abbiamo una maggiore disponibilità di tecnologie per ridurre l’impatto degli inquinanti sul pianeta, sia in campo energetico che delle materie plastiche e persino nell’organizzazione della distribuzione delle merci, un problema complicato ma non irrisolvibile tecnicamente. Un discorso valido anche per quanto riguarda la deforestazione vista l’attuale possibilità di adottare stili di vita e regimi alimentari più sani. Voglio ricordare che per produrre un chilo di carne serve la stessa quantità di risorse necessaria per 10 chili di proteine vegetali, il che significa che una dieta più ricca di carne aumenta il peso sul pianeta di dieci volte».
Insomma, oggi esistono delle alternative.
«Il vero cambiamento è dato dal fatto che queste alternative mettono in discussione il potere di chi, oggi, controlla il settore dei combustibili fossili nel mondo, interessato a produrre più plastica e a mantenere un sistema basato sulle fonti più inquinanti, in mano a un ristretto gruppo di persone. Le faccio un esempio».
Prego.
«Quando organizziamo le nostre iniziative, spesso mi rivolgo al pubblico dicendo: “Tutti noi qui potremmo costituire una cooperativa rinnovabile o una comunità energetica”. Difficilmente potremmo creare un mercato in oligopolio destinato a pochi e che controlla il mondo».
Che significa?
«Voglio dire che chi fa parte di quel settore non ha alcun interesse alla transizione, che invece conviene ai nuovi mercati composti da centinaia di migliaia di imprese di ogni tipo, piccole o grandi, da quelle che producono le nuove tecnologie a quelle che le installano. Nuovi comparti che, a parità di energia, con la transizione verde offrono molti più posti di lavoro alle generazioni future».
A proposito di transizione, anche la Commissione europea, che nella scorsa legislatura aveva puntato sul Green Deal, sembra stia cambiando idea, virando verso un’economia di guerra basata sulla produzione di armamenti. Che effetti avrà sull’ambiente?
«L’iniziativa di riarmo in Europa non è solo sbagliata ma ipocrita».
Perché?
«Perché punta ad aumentare la spesa militare come reazione alla minaccia russa mentre al contempo continuiamo a comprare da Mosca gas e combustibile nucleare, senza il quale, per fare un esempio, le centrali francesi sarebbero costrette a chiudere. Non siamo contrari all’idea di prepararsi a difendersi ma questo è un approccio sballato da diversi punti di vista».
Ci spieghi.
«Intanto aumenta la spesa militare dei singoli Stati membri, ognuno dei quali ha i suoi standard di difesa. Ma consente di farlo solo ai Paesi che hanno già le risorse mentre quelli che non le hanno, come l’Italia, dovranno trovarle indebitandosi o tagliando altre voci. Parliamo di un piano da 800 miliardi di euro, che potrebbe creare seri problemi alla spesa sociale».
Che fine farà invece il Green Deal?
«L’Europa è più consapevole di altri che la dipendenza dal gas russo è un problema anche geopolitico, quindi non credo che la Commissione Ue abbia cambiato idea sul Green Deal. Temo però che stia commettendo un altro errore».
Quale?
«L’idea di tranquillizzare Trump comprando più armi e più gas naturale liquefatto dagli Usa è sbagliata perché l’unica, vera soluzione per liberarci da questa dipendenza è puntare sulle rinnovabili che sono già delle dirette concorrenti del gas sia per quanto riguarda la produzione di elettricità che per gli usi domestici».
Ci fa un esempio?
«Con il Superbonus edilizio 110% abbiamo continuato a finanziare caldaie a gas ad alta efficienza anziché le pompe di calore elettriche».
Venendo all’Italia: all’insediamento del nuovo Governo Meloni Greenpeace presentò delle richieste precise al ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin: non sviluppare i piccoli giacimenti di gas; snellire il processo autorizzativo sulle rinnovabili; promuovere la mobilità elettrica; puntare su produzioni alimentari più sostenibili; non deregolamentare i cosiddetti nuovi ogm e rinunciare al nucleare, anche di ultima generazione. Arrivati a metà legislatura, a che punto siamo?
«Hanno fatto tutto il contrario. Evidentemente la tutela dell’ambiente non è una priorità e lo dimostra l’ultimo piano nazionale per l’energia e il clima».
Che riapre al nucleare.
«È ridicolo: il Governo presenta un piano in cui annuncia che una quota compresa tra l’11 e il 20% del fabbisogno energetico sarà soddisfatta con piccoli reattori modulari, una tecnologia di cui si parla da più di 30 anni e di cui, ad oggi, non esiste neanche un prototipo in Occidente. Addirittura poi si introduce anche una quota dalla fusione nucleare, che ancora non esiste».
Qual è l’obiettivo?
«Difendere il gas».
In che modo?
«È come se per difendere le auto più inquinanti, anziché puntare sulla mobilità elettrica, il Governo avesse presentato un piano per il teletrasporto in stile Star Trek. Siamo alle barzellette, che però nascondono interessi molto precisi e molto sporchi. Basta guardare il Piano Mattei».
Cos’ha che non va?
«È pieno di vecchi progetti dell’Eni, è sostanzialmente basato sul gas ed è foriero di un’altra idea di dipendenza».
Quale?
«L’assunto è: la Russia è diventata un problema e allora passiamo a dipendere da Paesi arabi e africani, la cui stabilità politica però non è di certo migliore. Scambiano una dipendenza con un’altra».
Perché?
«Perché aziende come l’Eni non hanno alcun ruolo nella transizione verde e per rimanere a galla devono continuare a poter vendere il gas. Cambia solo dove lo vanno a prendere ma l’obiettivo è mantenere il sistema energetico basato essenzialmente su questo combustibile fossile, che è anche il motivo per cui la bolletta energetica è così alta in Italia».
È un problema di calcolo del prezzo?
«È un problema politico. Il prezzo dell’elettricità in bolletta, secondo il meccanismo di mercato prevalente in Europa, dipende dal costo del gas. Ce n’è semplicemente troppo».
Ci faccia un altro esempio.
«Con un ricorso del settore elettrico superiore al 40 per cento, l’Italia vede il gas determinare il prezzo orario dell’elettricità per più del 90 per cento dei casi. Ma questa non è una denuncia di Greenpeace: sta scritto nel rapporto sulla competitività di Draghi».
Chi ostacola la transizione?
«Siamo ostaggio di un potere legato alle industrie dei combustibili fossili, delle armi, della plastica e di chi è interessato alla deforestazione. Anziché perseguire gli interessi generali a tutela dell’ambiente e della salute, la politica segue questi settori».