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Home » Ambiente

La causa del secolo: “Così combattiamo la lotta climatica in tribunale”

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"In Italia non abbiamo una normativa specifica che imponga il contrasto alle emissioni di CO2. Ma ci si può appellare alla responsabilità civile prevista dal Codice". Intervista all'avvocato Luca Saltalamacchia

Si attende in questi giorni la sentenza del Tribunale di Roma sul caso “Giudizio Universale”, la causa intentata allo Stato italiano per inadempienza climatica da parte di più di 200 ricorrenti tra associazioni e cittadini, la cui campagna è gestita dall’associazione A Sud.

S&D

L’azione legale è stata lanciata nel giugno 2021 e l’obiettivo è sollecitare il governo affinché intraprenda azioni concrete per arginare le emissioni clima-alteranti in atmosfera, ottemperando finalmente agli impegni presi a Parigi nel novembre 2015 e agli articoli della Costituzione che tutelano i diritti dei cittadini. Sono passati otto anni da quella Cop21 che sembrava aver dato una svolta alla transizione energetica ma, come purtroppo molti altri Paesi, l’Italia continua a dimostrare soprattutto con l’attuale governo di non aver preso sul serio le promesse fatte allora. 

Nel frattempo le temperature continuano a salire e i disastri climatici ad aumentare, tanto che persino il Global Risks Report 2024 del World Economic Forum di Davos, baluardo degli interessi delle multinazionali e dei grandi imprenditori, ha messo il cambiamento climatico al primo posto tra i rischi globali a lungo termine. Non resta che sperare in “Giudizio Universale”, dunque. 

«Sarebbe intanto un primo passo», spiega l’avvocato Luca Saltalamacchia, esperto di tutela di diritti umani e ambientali, uno dei professionisti del team legale che da circa due anni – insieme a Raffaele Cesari, esperto di Diritto civile dell’ambiente, e al professor Michele Carducci, esperto di Diritto climatico – ha portato lo Stato italiano sul banco degli imputati.

«Giudizio Universale – sottolinea Saltalamacchia – è un processo che riguarda tutti, perché tutti paghiamo le conseguenze dei cambiamenti climatici. Gli accordi di Parigi del 2015 parlano di uno sforzo cumulativo comune ma purtroppo ogni Stato fondamentalmente si nasconde dietro la mancanza di accordi internazionali specifici sui tagli delle emissioni e pretende che vengano fatti dagli altri, mentre fa il minimo indispensabile per non sconvolgere i propri sistemi economici tradizionali basati sui combustibili fossili. Il risultato è la triste e amara realtà per cui la concentrazione di gas serra in atmosfera, invece di diminuire, è in perenne aumento, con tutto quello che ne consegue». 

Ci sono altre cause legali simili in altri Paesi?
«La causa si inserisce nel solco delle Climate Litigations europee. Se dovesse avere un esito positivo, lo Stato italiano verrebbe condannato, così come è successo per esempio in Olanda, o recentemente in Belgio con una sentenza in Corte d’Appello. C’è stato un caso positivo anche in Francia. Uno in Germania, anche se in questo caso si trattava di annullare la legge sul clima che in Italia nemmeno esiste. Così in questi Paesi un tribunale di primo o secondo grado, o la Corte costituzionale o di Cassazione, hanno riconosciuto che lo Stato in questione non stava facendo abbastanza contro i cambiamenti climatici e che avrebbe dovuto fare di più. E gli Stati condannati hanno dovuto per forza migliorare le loro politiche climatiche o, nel caso della Germania, approvare una nuova legge». 

La speranza dunque è tutta nelle azioni legali, ma come si combatte sul piano legale la lotta alla crisi climatica e quanto è complicata?
«Cominciamo col dire che c’è un vulnus giuridico in tema climatico, nel senso che in Italia manca una normativa specifica. Anche la normativa ambientale è per molti aspetti lacunosa. Nel corso della mia carriera, però, ho scoperto che molte delle violazioni dei diritti umani fondamentali vengono realizzate attraverso i disastri ambientali, quindi ho iniziato a collegare le due cose. In Sud America o in Africa, per esempio, spesso il petrolio viene estratto all’interno dei territori delle popolazioni indigene. Le comunità indigene hanno un rapporto simbiotico con la natura, non si possono spostare. Se le aree che occupano ancestralmente vengono inquinate, vengono condannate praticamente alla morte. Ma oltre a far leva sui diritti umani, ho fatto ricorso alle categorie civilistiche che ho utilizzato anche nelle cause climatiche. Si tratta di norme abbastanza ampie. C’è un articolo del Codice Civile, il 2043, che proibisce di arrecare danni ad altri e che ordina a chi ha provocato dei danni a risarcirli. Non è una norma specifica, ma l’ho applicata alla luce delle esigenze particolari che si presentano di volta in volta. Purtroppo questo è limitativo, perché ogni causa è qualcosa senza precedenti, con tutte le difficoltà che si possono incontrare quando un operatore del diritto utilizza delle norme in maniera creativa e innovativa». 

Ogni nuova causa, però, crea precedenti su cui poter lavorare nei casi successivi, o ancora si fa molta fatica?
«Ogni pronuncia giudiziaria è un precedente e questo è il motivo per cui quando le imprese capiscono che il giudice vuole emettere una sentenza, in genere propongono una transazione. Lo dimostra il fatto che non ho casi finiti a sentenza legati ai contenziosi contro le imprese. Con la transazione si raggiunge un accordo e non c’è un provvedimento giudiziario che si può riutilizzare in futuri contenziosi, vale solo tra le parti. Viceversa, nel “Giudizio Universale” lo Stato non ha ritenuto di dover fare nessun tipo di proposta transattiva, per cui siamo arrivati fino alla fine e a breve uscirà una sentenza che sarà la prima della storia italiana, sicuramente un precedente positivo o negativo. La difficoltà maggiore è riuscire a far partire queste cause, perché ci sono ostacoli di tutti i tipi: di natura economica, perché fare questi processi ha un costo molto elevato, ma anche proprio di accesso al tribunale per difficoltà di tipo formale. Ogni volta io e i miei colleghi dobbiamo inventare uno stratagemma con costruzioni giuridiche complicate. In ogni caso, pur rimanendo il vulnus e pur non essendoci una normativa particolarmente avanzata in tema climatico e ambientale, devo dire che nel corso degli anni, parola dopo parola, si sta chiarendo sempre di più quello che si può e quello che non si può fare. Anche la normativa europea va avanti verso il contenimento sempre più stringente delle emissioni, sebbene con lentezza e un sacco di contraddizioni. A fare catenaccio in questa situazione in lento divenire, in Italia c’è la Rete Legalità per il Clima, composta da molti giuristi e avvocati come me. Una rete che spesso viene menzionata negli atti giudiziari». 

Quando si tratta di procedimenti contro gli allevamenti intensivi, che norme si possono utilizzare?
«La procedura che abbiamo attivato per gli impatti climatici causati dagli allevamenti intensivi è fatta davanti all’Ocse e abbiamo utilizzato le norme che si applicano in questi casi. Le linee guida dell’Ocse destinate alle imprese multinazionali sono una sorta di decalogo, un’indicazione di quello che le aziende dovrebbero fare per essere considerate virtuose. All’interno di questo elenco c’è per esempio il rispetto dei diritti umani, il rispetto per l’ambiente, il non aggravare la crisi climatica. Dunque abbiamo ricostruito una serie di mancanze da parte di alcune aziende che operano nel settore degli allevamenti intensivi per le quali secondo noi andavano segnalate. L’Ocse ha aperto un tavolo di mediazione e ci stiamo confrontando con le controparti per cercare di trovare una soluzione. Se altrimenti avessimo voluto lanciare un contenzioso, avremmo dovuto utilizzare le norme del Codice Civile o altre leggi, o articoli della Costituzione o norme contenute in trattati internazionali, dovendo fare però gli sforzi che ho descritto prima». 

Le Cop hanno potere normativo e contribuiscono alla giurisprudenza utile a combattere il cambiamento climatico?
«Durante le Cop la comunità degli Stati fa approvare anche la normativa. L’accordo di Parigi è stato approvato nel corso di una Cop. Come è successo alla Cop di Dubai durante la quale, per quanto sia stata giustamente al centro di mille polemiche, per la prima volta in maniera ufficiale si è detto che per raggiungere i target degli accordi di Parigi prima o poi bisognerà abbandonare le fonti fossili. Sono anche state fatte dichiarazioni sulla pericolosità del metano, un gas molto più letale dell’anidride carbonica. Il fatto che non ci siano sanzioni per chi non rispetta la norma non è un problema legato alla funzione normativa in sé. Il problema è il tipo di norma che viene prodotta. Per ora si producono norme blande che fissano degli impegni più che obblighi, è chiaro che poi ognuno agisce a modo suo. Il problema è che non si vuole scontentare gli Stati che sono allergici a prendersi degli impegni vincolanti. Soprattutto perché i criteri per la ripartizione degli impegni sono tanti e controversi. Per fortuna ci pensa la scienza. Ci sono oramai una quantità enorme di contributi da parte di scienziati che individuano diversi criteri. Nel “Giudizio Universale” abbiamo utilizzato uno di questi studi, che ha attestato che l’Italia, se volessimo considerare la responsabilità anche delle sue emissioni storiche, dovrebbe tagliarne molto di più rispetto ai programmi che si è data». 

Quali sono le difficoltà nelle cause risarcitorie per chi ha subito dei danni causati da eventi climatici estremi?
«Ogni Paese ha delle sue regole in termini di responsabilità e di risarcimento del danno. Una regola che però è comune a tutti gli Stati è che si deve dimostrare che la condotta di un soggetto è stata la responsabile o tra le responsabili del danno. Il problema del contenzioso climatico di tipo risarcitorio è proprio questo: come si fa a dire che sono state proprio le emissioni di un soggetto a provocare per esempio un’alluvione? E allora forse, e questo è un tema giuridico, gli operatori del diritto si dovrebbero interrogare sul fatto che in materia di cambiamento climatico i danni sono provocati da miliardi di concause, perché sono miliardi coloro che emettono i gas clima-alteranti. In questo caso bisogna ricostruire il rapporto tra la condotta e il danno non tanto in maniera lineare ma in termini “probabilistici”. Se quel soggetto non avesse emesso, questa situazione si sarebbe verificata? Oppure bisognerebbe capire se, in astratto, il fatto che un soggetto emette costituisca una condotta che può provocare il danno. Sotto questo aspetto è chiaro che i grandi emettitori sono tutti responsabili, proprio perché non è possibile dire che la colpa sia di uno solo di loro. Per ora sono partite pochissime cause risarcitorie e non in Italia. Tuttavia, ne è sicuramente prevista una prossima ondata perché, visto che le imprese e gli Stati non si stanno muovendo in maniera veloce, è molto probabile che la società civile in varie parti del mondo inizierà ad agire in questo senso».

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