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Home » Tecnologia

È iniziata l’epoca del cittadino digitale?

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Da poco l’AGID, l’Agenzia per l’Italia digitale, ha rilasciato la Guida dei diritti di cittadinanza digitali. Sono finalmente riconosciuti in maniera univoca quei diritti che, grazie al supporto di una serie di strumenti e processi, contribuiscono a facilitare a cittadini e imprese la fruizione dei servizi della Pubblica Amministrazione, rendendola più vicina e accessibile agli utenti. Semplicità sembra essere la parola d’ordine che meglio dovrebbe riassumere l’idea di questo nuovo rapporto fra cittadino e Pubblica Amministrazione. Ma a che punto è l’Italia con il digitale? Lo abbiamo chiesto a Alfonso Fuggetta, docente di informatica, Amministratore Delegato e Direttore scientifico di Cefriel, Centro di Innovazione Digitale fondato dal Politecnico di Milano

S&D
Qual è l’approccio culturale del Paese davanti ai temi della digitalizzazione?

Non passa giorno che sulla stampa, sui media, nelle dichiarazioni di politici e imprenditori non si senta ripetere quanto sia importante e vitale la digitalizzazione e con essa lo sviluppo delle competenze, della formazione e dell’alfabetizzazione digitale. Si ricorda, a ragione, quanto i cambiamenti tecnologici che stanno avvenendo siano profondi e trasformativi. Si lanciano grida di allarme per il lavoro che, se non sparisce, certamente cambia radicalmente. Si osserva quanto il ruolo delle tecnologie digitali impatti e rivoluzioni i processi culturali e sociali. Tutto vero, ovviamente. Tuttavia, a fronte di queste insistite e diffuse preoccupazioni, continuiamo a rilevare un gap tra attese e realtà e, soprattutto, nella velocità con la quale la nostra società sta rispondendo a queste sfide epocali. Non siamo ancora pienamente consapevoli che la rivoluzione digitale ci ha immerso all’interno della più grande rivoluzione, per velocità e intensità dei cambiamenti, mai vissuta nella storia dell’uomo. Tante nostre certezze stanno andando in frantumi, le esperienze e le categorie culturali del passato non sono sufficienti a governare i cambiamenti in atto e spesso ne rappresentano un ostacolo. La formazione e l’istruzione per il digitale devono rappresentare dei pilastri sui quali si fonda lo sviluppo economico, sociale e culturale di un Paese. Formazione per la cittadinanza, formazione per la trasformazione e lo sviluppo delle organizzazioni e degli ecosistemi, formazione per l’innovazione sono tre aree di attività diverse sulle quali ci si dovrebbe focalizzare per accompagnare il profondo cambiamento connesso alla trasformazione digitale.

Esiste nel nostro Paese consapevolezza attorno al valore dei dati digitali?

Tutti parlano della centralità dei dati come leva essenziale per capire il mercato, i clienti, il funzionamento dell’azienda. Eppure, spesso i dati non vengono raccolti e gestiti o, peggio, sono del tutto ignorati. In realtà, un’azienda moderna e innovativa deve essere “real-time”, deve cioè essere capace di raccogliere e analizzare i dati senza inutili latenze e ritardi, garantendo una visione unitaria e coerente delle dinamiche d’impresa a tutte le sue persone. Affinché ciò sia possibile, l’impresa, come anche la Pubblica Amministrazione, dovrebbe dotarsi di processi di analisi dei dati utili ad abilitare la tanto citata “data governance” che, senza strumenti e approccio adeguati, rischia di essere una delle tante buzzword che si sentono ripetere oggi.
L’apertura e condivisione dei dati, così come il ricorso a standard aperti abilitano la costruzione di
ecosistemi digitali basati su modello Gaia-X, ovvero ecosistemi aperti, trasparenti e sicuri all’interno dei quali imprese, PA, organizzazioni mettono a disposizione e utilizzano dati e servizi digitali di nuova generazione, secondo linee guida e regole condivise. In pratica, veri e propri mercati che abilitano la collaborazione attraverso lo scambio di prodotti digitali di diversa natura come ad esempio dataset, flussi informativi, connettori a servizi digitali o anche funzionalità infrastrutturali quali, ad esempio, capacità di elaborazione erogate in cloud.

È giusto parlare oggi di cittadinanza digitale?

Più che parlare di cittadinanza digitale, ritengo si debba prendere atto del fatto che essere (e fare) i cittadini oggi significa sapersi muovere in una società nuova, in continua evoluzione, che vede il digitale come sua parte costituente e ineliminabile che ne determina, nel bene e nel male, dinamiche, costumi e attitudini. Il digitale non può essere più visto come un elemento marginale del quale sia possibile fare a meno o un ambito tra i tanti del nostro essere cittadini. Il digitale offre grandi potenzialità e, al tempo stesso, è capace di condizionare in modo profondo e fin doloroso le nostre vite. Ignorato o usato male si rivolta contro di noi. Non ha senso parlare oggi di cittadinanza digitale, come non ha senso parlare di cultura digitale”, come se fosse in antitesi o in alternativa o complementare alla “cultura” così come l’abbiamo sempre considerata. Se, come afferma Tullio De Mauro, senza cultura non ci possono essere democrazia e conseguentemente rapporti sociali maturi, e se è vero come è vero che il digitale ha un impatto profondo e radicale sul concetto moderno di cultura, allora ne deriva che il digitale determina e contribuisce a definire i concetti di cittadinanza e di democrazia. Per questo dobbiamo necessariamente parlare di cultura ai tempi del digitale e non di cultura digitale. Così come dobbiamo parlare di cittadini ai tempi del digitale.

Come si sta evolvendo il “cittadino digitale”? La pandemia ha avuto un ruolo in questo processo?

La pandemia ha sicuramente accelerato il processo di trasformazione digitale di imprese e PA e il ricorso alle tecnologie da parte delle persone, costrette a casa e a interagire e relazionarsi in modo virtuale, spesso a differenza di quanto fossero abituate a fare prima. A fronte di questa spinta al cambiamento, però, non ci sono state azioni di accompagnamento utili a comprendere come le persone possano e debbano affrontare al meglio il processo di digitalizzazione. Pensiamo, per esempio, allo smartworking, attivato in questo periodo da molti in emergenza, senza averlo mai sperimentato prima. Anche con questa nuova modalità di lavoro siamo chiamati a trovare un equilibrio tra vita in ufficio, che serve a creare cultura, allineamento e coaching diffuso, nonché condivisione e senso di appartenenza, e lavoro da remoto, che garantisce flessibilità e bilanciamento tra lavoro e vita privata. La chiave del successo che abbiamo sperimentato in Cefriel, per esempio, è quella di definire progetti di smartworking ad hoc, con focus sul raggiungimento degli obiettivi e bilanciamento tra le diverse necessità personali e aziendali.

Le tecnologie e i metodi che abbiamo oggi a disposizione ci permettono di ripensare e reinventare le nostre imprese. Non è un processo semplice e per nulla esente da rischi e incognite. Occorre approcciare l’innovazione con metodo, e non improvvisando, cercando sempre un equilibrio tra velocità, agilità, pianificazione, metodo e struttura: su questo si gioca il futuro delle nostre imprese e della nostra economia.

A suo parere cosa è migliorabile nel percorso di digitalizzazione della PA?

Quando parliamo di diritto di accesso ai servizi online della Pubblica Amministrazione, siamo portati a immaginarci una diversa modalità, digitalizzata appunto, di rapportarsi alla PA da parte del cittadino e non, come invece potrebbe essere, a una nuova PA che, grazie al digitale, possa rispondere davvero e in modo concreto ai bisogni delle persone. Dovremmo cambiare il paradigma mettendo al centro i bisogni delle persone. Piuttosto che costruire servizi digitali che rispondano a vecchie esigenze della Pubblica Amministrazione, dovremmo ripensare a una PA che non si limita a “semplificare o digitalizzare i processi”, ma che li ridisegni per migliorare la vita di cittadini e imprese, risolvendo loro problemi, senza limitarsi ad una pur necessaria ottimizzazione del funzionamento della macchina pubblica. Una PA che non produca certificati digitali, ma che li abolisca grazie alla possibilità di scambiarsi informazioni attraverso l’interoperabilità e la realizzazione di ecosistemi digitali aperti.

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