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Riforma della cittadinanza: tanto buonsenso e zero demagogia

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Si torna finalmente, dopo tre anni, a parlare in modo concreto di riformare la legge sulla cittadinanza, la 91/1992 entrata in vigore, forse non a caso, 48 ore prima della firma del Trattato di Maastricht.

Chi è contrario a modifiche in materia, soprattutto a destra, ribadisce che l’attuale legge va benissimo, anzi è fin troppo avanzata. Chi, invece, vuole che sia cambiata, in modi diversi partendo dal mondo cattolico fino all’estrema sinistra, tira fuori argomenti vari quasi sempre in modo scoordinato. Un dibattito concreto sull’argomento pare impossibile. Per quanto si cerchi di fare chiarezza, la battaglia continua ad essere condotta a furia di slogan, il più delle volte generici ed imprecisi. Per questo, prima di procedere oltre a livello dottrinale, urge un breve riassunto storico che cerchi d’inquadrare il problema in modo equilibrato.

Ad introdurmi, in modo graduale ma sempre più coinvolgente, nel labirinto di questa materia, è stata la mia trentennale avventura alla guida del cricket italiano, sport ad altissima partecipazione immigratoria proveniente dal subcontinente indiano. Questa incontestabile realtà, unita al desiderio di favorire l’integrazione giovanile, portò la Federazione Cricket Italiana nel febbraio 2003 ad introdurre nel suo ordinamento lo “Ius Soli” sportivo. In questo modo si equiparavano tutti i nati in Italia di età inferiore ai 19 anni, non in possesso di cittadinanza, aventi diritto a riscattare la cittadinanza al conseguimento della maggiore età, ai cittadini a pieno diritto. Fu un’autentica, ed in parte incosciente, sfida al CONI che, però, con il tempo fu recepita dall’ente che poi ne assorbì i contenuti facendoli anche suoi.

Successivamente, sempre restando nel cricket, venerdì 21 agosto 2009, l’opinione pubblica prese ulteriormente coscienza della questione cittadinanza quando un gruppo di ragazzi, decisamente abbronzati, regalò all’Italia il titolo Europeo Under 15. La rilevanza del risultato era relativa, l’impatto mediatico fu immenso. Un cocktail di ragazzi indiani, pakistani, singalesi e bengalesi con due ciliegine, una afgana e l’altra sarda, si era riunita sotto il tricolore intonando l’inno di Novaro e Mameli durante la premiazione. La settimana seguente il torneo, l’allora presidente della Camera, Gianfranco Fini, presenziava, lui post fascista, al festival del Partito Democratico a Genova, ossia a casa dei post comunisti. L’occasione non poteva essere più solenne e Fini si assicurò che restasse memorabile. Prendendo il toro per le corna, citò “i ragazzi del cricket” come esempio della nuova Italia, un Paese bisognoso di una nuova legge bipartisan sulla cittadinanza. La questione assumeva finalmente la forma corretta: non più la battaglia di uno schieramento contro l’altro ora, bensì un problema d’interesse nazionale da risolvere in modo condiviso.

In realtà, la legge di cui parlava Fini era già pronta da tempo. Portava la firma di Rocco Granata, suo fedele seguace, ed Andrea Sarubbi, deputato del PD. Mercoledì 23 settembre 2009, il progetto fu presentato nella Sala Mappamondo di Montecitorio con i ragazzi della Nazionale Under 15 presenti in veste di testimonial. Purtroppo il susseguente degenerare dello scenario politico, culminato con l’insanabile frattura tra Berlusconi e Fini, relegò, dopo qualche mese, in secondo piano il dibattito sulla cittadinanza al punto che neppure la nomina a ministro della integrazione nel Governo Monti, nato nel novembre 2011, di Andrea Riccardi, ispiratore del nuovo disegno, riuscì a rivitalizzare il progetto.

Per tornare a parlare di cittadinanza si dovette attendere la nascita del governo Letta nella primavera 2013. A onor del vero, la nomina della chirurga oculista italo – congolese Cecile Kyenge a ministro per l’integrazione fu soprattutto un gesto simbolico in assenza di effettivi passi avanti in materia. A fine anno, poi, l’uscita del libro Italian Cricket Club, prodotto da tre giovani giornalisti (Giacomo Fasola, Ilario Lombardo e Francesco Moscatelli) certificava l’esistenza intorno a questo sport di un armonioso mondo integrato, unico nel suo genere in Italia. Nel frattempo, però, la definitiva scomparsa di Gianfranco Fini dal proscenio politico faceva regredire la questione da una d’interesse generale nazionale ad istanza d’una sola parte politica.

Negli ultimi sette anni, abbiamo assistito a tante chiacchiere e zero fatti. La penosa melina verificatasi sul disegno di legge Lo Moro, approvato il 13 ottobre del 2015 dalla Camera dei Deputati e mai discusso in senato nei 30 mesi residui di legislatura, ha esemplificato a sufficienza la mancanza di una volontà politica di porre mano al problema. In seguito, con il Decreto Salvini del 24 settembre 2018, che non ha modificato la 91/92 ma ne ha rallentato l’attuazione, si è oggettivamente fatto un mezzo passo indietro posto che si è raddoppiato da due a quattro anni il tempo concesso alle prefetture per rispondere alle domande di cittadinanza.

Questo il pregresso, ora guardiamo al futuro. Quale soluzione si prospetta per far uscire la riforma della cittadinanza dalla palude? In primis, va necessariamente recepita la lezione di Gianfranco Fini. La riforma della cittadinanza rientra nella evoluzione dei diritti civili. Ne consegue che non è né di destra, né di sinistra: può avvenire solo se bipartisan. Fino a quando la sinistra si arrogherà il diritto di depositaria della materia, la destra si opporrà, più per preconcetto che per contrarietà ideologica. L’esempio di quanto avvenuto poco meno di mezzo secolo fa nella più grande battaglia civile della storia repubblicana, la legge sul divorzio, fornisce un esempio indelebile da seguire. Il referendum abrogativo fu sconfitto, sovvertendo i numeri parlamentari, grazie al contributo, inaspettato, d’una cospicua fetta di elettorato conservatore.

Secondo punto imprescindibile da comprendere, e soprattutto accettare, è che il termine “Ius Soli”, per il momento, va messo in frigorifero. L’ampliamento del diritto alla cittadinanza si può fare anche senza questa fattispecie che, oltre a non essere contemplata dagli antichi giuristi romani, sta gradualmente venendo abbandonata anche dal paese che l’ha creata: il Regno Unito. L’unica nazione al mondo che lo contempla oggi è quello che può permettersi di farlo. Mi riferisco agli Stati Uniti d’America, Paese da cui non mi risulti nessuno voglia emigrare. Chi nasce in America, ci resta per sempre. Non credo si possa dire lo stesso dell’Italia. Riuscirà l’estrema sinistra italiana a tollerare questo avanzamento a tappe parziali? Il suo rifiuto, nell’autunno 2017, d’accettare la mediazione cattolica che avrebbe portato all’approvazione del progetto Lo Moro in forma ridotta, così assicurando il via libera allo “Ius Culturae”, fa temere il peggio.

In apertura, ho diviso per semplicità, gli schieramenti all’interno dell’arena politica tra difensori della 91/92 ed abrogatori della medesima. Ritengo, tuttavia, che ci sia una posizione intermedia di buonsenso che passa per un ampliamento della legge attualmente in vigore. Infatti, se quanto previsto oggi per i nati in Italia, ossia il conferimento della cittadinanza in coincidenza con il raggiungimento della maggiore età, fosse esteso anche a chi abbia completato due cicli scolastici, frequentandoli appieno e con profitto, la maggior parte dei casi relativi ai giovani, la vera risorsa da salvaguardare, sarebbe felicemente risolta. Coloro che hanno iniziato il percorso alle elementari, conseguirebbero il diritto con l’acquisizione della licenza media. Al compimento del 18° anno di età diventerebbero automaticamente cittadini italiani, alla pari dei nati nel Paese. Per coloro che, invece, cominciano il ciclo di studi dalla scuola media, andrebbe considerata la possibilità di acquisizione della cittadinanza “non oltre il compimento del 22° anno d’età” in considerazione delle oggettive difficoltà che si riscontrano nell’adattamento in corsa alla scuola secondaria. Si tratta quindi di “acquisizione di cittadinanza per scolarità”, definizione decisamente più appropriata di Ius Culturae. Onestamente, non vedo Meloni e Salvini, che sicuramente resteranno contrari a qualsiasi cambiamento, impegnarsi in una crociata di fronte all’introduzione di questa innovazione, cosa che invece avverrebbe nel caso, peraltro altamente improbabile, di approvazione parlamentare dello “Ius Soli”.

Bisogna, alla resa dei conti, per il momento sapersi accontentare in materia di cittadinanza di quello che appare un piccolo passo ma, in realtà tanto piccolo non è, onde evitare di mandare tutto a monte a seguito di un referendum abrogativo che spaccherebbe il paese. Le risposte semplici, si sa, non piacciono ai politici in quanto riducono le questioni a tecniche, togliendo loro ogni possibilità d’attribuirsi il merito. C’è solo da sperare che, una volta tanto, la nostra classe politica sia capace, per il bene di più di un milione di giovani, d’abbandonare il dire per privilegiare il fare.

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