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L’ipocrisia della sinistra che festeggia il Primo Maggio ma ha dimenticato i lavoratori

Immagine di copertina
Pierluigi Bersani e Matteo Renzi insieme nel 2013. Credit: ANSA/ CARLO FERRARO

Come ogni anno per la Festa del Primo Maggio arriva un diluvio di dichiarazioni solenni sull’Italia “repubblica democratica fondata sul lavoro” e sulla piaga della disoccupazione, soprattutto quella giovanile. Parole accorate vengono pronunciate in particolare da esponenti dei partiti di centrosinistra e dei sindacati. Nulla di strano, almeno sulla carta: la Festa dei Lavoratori, istituita nel 1889 dalla Seconda Internazionale, è una ricorrenza che appartiene al patrimonio storico della sinistra.

Quel che Partito democratico, Liberi e Uguali e Cgil (insieme con Cisl e Uil) dimenticano di dire, però, è quanto negli ultimi vent’anni essi stessi abbiano contribuito, attivamente e passivamente, a determinare la disastrosa situazione attuale del mondo del lavoro: disoccupazione elevata, precarietà diffusa, stipendi ai livelli più bassi d’Europa.

Dal Pacchetto Treu al Jobs Act

Tutto ebbe inizio nel 1997, sotto il primo Governo Prodi, quando su delega del Parlamento fu varato il cosiddetto Pacchetto Treu (dal nome dell’allora ministro del Lavoro, Tiziano Treu). Per il diritto del lavoro italiano fu una rivoluzione. Si introdusse il lavoro interinale, fino ad allora vietato, e venne cancellata la norma del Codice civile che stabiliva come regola per i rapporti di lavoro il contratto a tempo indeterminato, lasciando così campo libero ai vari contratti a termine, part-time e co.co.co. L’obiettivo era rendere il mercato del lavoro più flessibile e al passo coi tempi, il risultato fu più occupati nelle statistiche ufficiali ma pure più precarietà, anche perché non fu previsto nemmeno lo straccio di un ammortizzatore sociale.

Il processo di mutazione fu completato sette anni dopo dal Governo Berlusconi-bis con la cosiddetta Legge Biagi, che moltiplicò i cosiddetti contratti atipici: dal lavoro a chiamata al lavoro intermittente, fino al lavoro ripartito, occasionale e ai co.co.pro. Anche qui zero tutele per coloro che rimanevano tagliati fuori dal mercato. Una pezza avrebbe potuto mettercela il secondo Governo Prodi, salito in carica nel 2006. E invece nulla: la Legge Biagi non fu toccata dal centrosinistra.

Poi arrivò la crisi: la disoccupazione schizzò a livelli record e la precarietà del lavoro entrò nel lessico del dibattito politico come un problema da risolvere. Ecco allora interventi per tutelare lavoratori sempre più poveri e meno tutelati? Macché. Nel 2012 il Governo Monti, sostenuto anche dal Partito democratico di Bersani, liberalizzò il ricorso al lavoro accessorio, ai voucher e ai contratti a tempo determinato.

Nel 2014, con il Jobs Act, il Governo Renzi ha operato un parziale riordino dei contratti atipici e incentivato per tre anni le assunzioni a tempo indeterminato, ma ha anche reso più facili i licenziamenti e consentito il demansionamento dei dipendenti.

Renzi sostiene che tra il 2014 e il 2017 i posti di lavoro sono aumentati di un milione. Il riferimento è ai dati Istat sugli occupati, cosa ben diversa però dai posti di lavoro: l’Istituto di statistica considera infatti “occupato” anche chi ha lavorato un’ora in una settimana o chi dà una mano dell’azienda di famiglia senza essere pagato. Inoltre, è stato fatto notare da alcuni analisti che tra i fattori alla base di questo aumento occupazionale più che il Jobs Act c’è la riforma Fornero, che ha impedito ad alcuni dei lavoratori più anziani di andare in pensione.

E siamo ai giorni nostri: salito al potere il Governo M5S-Lega, il Pd ha duramente criticato il Decreto dignità, che ha posto limiti più stringenti ai contratti a tempo determinato, e l’introduzione del reddito di cittadinanza, sussidio statale per i disoccupati più poveri.

Il ruolo dei sindacati

In questi vent’anni i sindacati sono scesi in piazza più volte per protestare contro questo o quel provvedimento legislativo, ma non hanno mai saputo rappresentare davvero le istanze dei lavoratori precari e dei disoccupati: non a caso oggi in Cgil, Cisl e Uil gli iscritti under 35 non superano il 20 per cento del totale e le sigle più numerose sono quelle dei pensionati.

In compenso, nel 2011 le tre confederazioni hanno firmato un accordo sulle relazioni industriali che favorisce la contrattazione decentrata rispetto a quella nazionale e che non a caso è piaciuto molto a Confindustria.

Stipendi bassi

In Italia gli stipendi sono come i prezzi di quel noto slogan pubblicitario: “bassi e fissi”. Si perde il conto delle statistiche che lo dimostrano. Ne citiamo giusto alcuni.

Dati Ocse dicono che nel 2000 il salario medio annuo italiano era pressoché pari a quello di Francia e Spagna. Nel 2017 in Spagna si guadagnavano circa 2mila euro in più che da noi e in Francia addirittura 7mila in più. Con le buste paga tedesche il gap è lievitato invece da 6mila a 11mila euro all’anno. E non si parla di precari, ma di lavoratori dipendenti, cioè dei “più fortunati”.

Ai giovani, poi, va anche peggio: in Italia – dati Inps – un dipendente guadagna in media 21mila euro, ma se ha meno di 30 anni l’importo scende a 14mila euro. E ancora: tra il 2012 e il 2016 in Italia il ricorso agli stage è raddoppiato (+100%, dati Anpal). Per i neolaureati si tratta ormai della principale via d’accesso al mondo del lavoro. E si tratta di tirocini spesso non pagati o con rimborsi spese di qualche centinaio di euro.

Cos’ha fatto il centrosinistra per rimediare a questo tracollo delle retribuzioni? Niente. Anzi, ci sarebbero i famosi 80 euro di Renzi, ma quella è una misura che non quadra per almeno tre ragioni: la prima è che costa molto (10 miliardi all’anno, uno in più del reddito di cittadinanza), la seconda è che ha fallito nell’obiettivo di risollevare i consumi interni e la terza è che in uno Stato normale non esiste che uno stipendio privato debba essere aumentato con soldi pubblici (il Governo semmai deve costruire un quadro economico complessivo che imponga al datore di lavoro di pagare come si deve il suo addetto).

Il grande vuoto

Negli ultimi vent’anni la sinistra ha dimenticato la sua missione costitutiva: difendere i più deboli. Ha dato l’impressione di badare più a salvare banche o migranti (entrambe le cose importanti, sia chiaro) che non a tutelare disoccupati, operai, riders, telefonisti e precari in generale. Non ha riconosciuto i pericoli nascosti dietro la globalizzazione e il progresso tecnologico. Non ha saputo formulare una politica industriale né far fronte alla crisi dello Stato sociale. Non è stata in grado di elaborare una soluzione al dilemma ambiente- occupazione (vedi caso Ilva).

Il risultato è che oggi alle urne la maggioranza dei disoccupati e di chi lavora in fabbrica, nei call center o fa consegne a domicilio si divide tra M5S, Lega e astensionismo. Salvini e Di Maio riempiono in parte il vuoto lasciato dalla sinistra offrendo protezione all’elettorato più povero e quindi arrabbiato. Ma i loro spesso sono slogan dietro cui non c’è sostanza.

In occasione del primo Primo Maggio gialloverde sarebbe utile se sinistra e sindacati lasciassero da parte la retorica, riconoscessero i propri errori e si mettessero seriamente a ragionare su come tornare a difendere davvero i più deboli: disoccupati e lavoratori.

PD e M5s devono allearsi o verranno schiacciati da Salvini: le elezioni in Spagna lo dimostrano (di L. Telese)

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