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    M5S, Pizzarotti a TPI: “Di Maio ce l’ha con Di Battista e ha ragione. Ma il vero nodo è Casaleggio”

    Federico Pizzarotti è sindaco di Parma dal 2012. Credit: ANSA/ALESSANDRO DI MARCO

    Intervista al sindaco di Parma, ex pentastellato: "Gli Stati generali non bastano, non significano automaticamente più democrazia. Il Movimento ha una struttura verticistica. Chi dopo Di Maio? Non so se ci sarà Di Battista, Fico o Patuanelli"

    Di Enrico Mingori
    Pubblicato il 23 Gen. 2020 alle 18:13

    Pizzarotti: “Le dimissioni di Di Maio? Ce l’ha con Di Battista e ha ragione”

    Le dimissioni di Luigi Di Maio da capo politico aprono una fase nuova per il M5S. Chi sarà il suo successore? Il Movimento sopravviverà a questa fase di crisi? Il governo rischia di cadere? TPI ne ha parlato con Federico Pizzarotti, sindaco di Parma. Pizzarotti nel 2012 è stato il primo sindaco pentastellato eletto in un capoluogo di provincia. Negli anni successivi il suo rapporto con i Cinque Stelle si è deteriorato, fino al divorzio, consumatosi nell’autunno del 2016. Da allora Pizzarotti guida nel Consiglio comunale il gruppo Effetto Parma e nel 2018 ha fondato il movimento Italia in Comune, schierato nell’ampio fronte del centrosinistra.

    Sindaco, lei tre anni fa prevedeva che i Cinque Stelle avrebbero finito per essere costretti a fare un congresso. Gli Stati generali annunciati per marzo vanno nella giusta direzione?

    Il Movimento è sempre stato strutturato in maniera verticistica, quindi gli Stati generali di per sé non significano automaticamente più democrazia. Dal 2014 il M5S si ritrova ogni anno per Italia a 5 Stelle: si potrebbe pensare che quella sia una iniziativa assembleare, ma in realtà si è trattato sempre solo di un evento comunicativo. Se vuoi fare un’assemblea, dovresti avere delle correnti di pensiero e delle mozioni che provano a cambiare alcune cose. Non basta dire “adesso facciamo gli Stati generali”. Deciderà chi sarà lì o ci sarà il voto da casa? Come verranno fatte le proposte? Ci sarà un regolamento? Sono queste le domande. Altrimenti si potrebbe dire anche che il capo politico è stato votato. Peccato che era praticamente l’unico candidato. Il tema è sempre la modalità.

    Commentando le dimissioni di Maio da leader M5S, lei ha detto che questo, per il Movimento, è l’inizio della fine. E dopo la fine, cosa c’è?

    Quello spazio sarà occupato da qualcun altro, come sempre avviene in politica. Lo spazio è quello delle persone che vogliono avere un nemico comune. Quando c’era da cavalcare la rabbia su temi come l’anti-politica l’ha occupato il Movimento 5 Stelle, oggi, su altri temi, lo occupa la Lega. Io mi auguro che un giorno possa sorgere una proposta che voglia coinvolgere le persone sulla base di una proposta e non sulla base di un nemico.

    Cosa farò adesso Di Maio?

    Non so se resisterà dal ricandidarsi o dal dire “mi hanno spinto a ricandidarmi”, cercando un nuovo plebiscito da parte di quelli che sono rimasti.

    Chi sarà il suo successore dopo la reggenza di Crimi?

    Quando Di Maio ieri ha detto “c’è qualcuno che è stato nelle retrovie e che poi è uscito solo per pugnalarmi senza prendere mai la responsabilità di stare qui ogni giorno”, alludeva chiaramente a Di Battista: ci mancava solo che facesse nome e cognome. Su questo ha ragione: Di Battista non si è mai preso alcuna responsabilità. Detto questo, non so se Di Battista vorrà ricandidarsi per ricreare nel Movimento l’entusiasmo delle origini. Non so se si candiderà qualcuno di una corrente più di sinistra, come Fico, o se è già Patuanelli lo scontato successore. Lo scopriremo solo nelle prossime puntate. Il vero nodo comunque è un altro.

    Quale?

    Il nodo è Casaleggio. Sta lì, ha un ruolo che non è un ruolo, fa cose e decide ma non si sa quando, come, perché e con chi. Finché il Movimento non scioglie quel nodo, non si parlerà mai delle singole persone ma delle persone che saranno appoggiate o meno da chi gestisce Rousseau e i vari eventi. Almeno le correnti della Dc o del Pd avevano nomi e cognomi e spazi di manovra legati a valori. Qui invece non si parla mai di contenuti ma solo di simpatie o antipatie e di sondaggi o non sondaggi.

    Sia i Cinque Stelle sia il Pd hanno annunciato una fase di rinnovamento. Questo può nuocere al governo?

    Sono molto d’accordo con quello che ha detto Zingaretti sulla necessità di aprire il partito. Il fatto è che sono al governo loro malgrado, nel senso nella nostra democrazia parlamentare il governo lo decide il parlamento con le sue maggioranze. Ma in realtà è come se fossero, tra virgolette, all’opposizione e si preparassero alle prossime elezioni.

    Ma, appunto, non è malsano il fatto che chi è al governo stia ancora cercando quale strada deve prendere?

    Malsano no, diciamo inconsueto. Visti i problemi che hanno, è un bene che entrambi abbiano capito che c’è qualcosa che non funziona. Non dimentichiamoci che questa è un’alleanza insolita.

    Ormai quasi ogni giorno c’è qualche parlamentare che esce dal Movimento. Questa disgregazione rischia di far traballare la maggioranza?

    Secondo me no, proprio perché il loro vantaggio è rimanere al governo: se avranno il tempo, in due anni, di rinnovarsi, allora come centrosinistra potrebbero davvero giocarsela alle prossime elezioni nel 2023. Oggi invece non se la giocherebbero: vincerebbe di sicuro Salvini.

    Il M5S alle politiche del 2018 era sopra il 30 per cento, oggi i sondaggi dicono che è poco oltre il 15. A chi sono andati i voti persi per strada?

    Si sono ripartiti più o meno in modo equivalente tra il non voto, il centrosinistra e la Lega.

    I voti persi dai Cinque Stelle potrebbero essere decisivi anche alle regionali dell’Emilia-Romagna.

    Credo saranno più decisivi i voti degli indecisi e di quegli elettori del centrodestra che si rifiuteranno di votare per una candidata come la Borgonzoni che, come ha detto il sindaco di Milano Sala, “non sa dove sta di casa”.

    Quindi secondo lei vincerà Bonaccini?

    Sì, vince Bonaccini, perché lui ha parlato di contenuti. È evidente che in questa fase c’è un vento che porta a votare di pancia, ma il divario contenutistico tra i due candidati prevarrà.

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