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Home » Politica

Piero Ignazi a TPI: “Ecco perché Gaza riempie le piazze ma non le urne”

Immagine di copertina
Credit: AGF

“Quella pro-Pal è una mobilitazione civile che non si vedeva da anni. Ma questi movimenti sociali difficilmente hanno un effetto immediato sulle elezioni. Meloni è nervosa. E si comporta da capofazione con un alto tasso di volgarità. A sinistra mancano i voti degli astenuti”. Intervista al politologo, professore di Politica comparata all’Università Alma Mater di Bologna

Piero Ignazi, il centrosinistra è reduce dalla sconfitta alle elezioni regionali nelle Marche e in Calabria. Nelle Marche, in particolare, secondo alcuni osservatori, si è dato molto spazio alla questione palestinese e poco ai problemi dei cittadini. Lei condivide?
«Francamente io non l’ho capita questa osservazione. Matteo Ricci (il candidato del centrosinistra,  ndr) non ha fatto altro che puntare tutto sulla sanità. Se andiamo a vedere le cronache, il tema più discusso nella campagna elettorale del centrosinistra è stato quello. Poi, negli ultimi due o tre giorni è venuta fuori la questione di Gaza ma è stata del tutto irrilevante nel corso della campagna elettorale. La campagna elettorale di Ricci è stata tutta sulle questioni regionali: dire che abbia perso solamente perché ha parlato di Gaza mi sembra un’interpretazione estremamente limitata. La verità è che dall’altra parte c’è stata una deviazione di fondi mai vista a favore delle Marche e quindi promesse di ogni genere». 

Nelle Marche e in Calabria, ancora una volta, c’è stata una massiccia astensione, mentre nelle ultime settimane le piazze si sono riempite, come non si vedeva da tempo, di persone che hanno manifestato la propria solidarietà nei confronti della Flotilla e della popolazione palestinese. Come mai, per citare una nota frase di Pietro Nenni, le «piazze sono piene e le urne vuote»?
«Le cose, secondo me, non hanno nessuna relazione l’una con l’altra. Da una parte c’è una mobilitazione civile che non si vedeva da anni. Perché se pensiamo al G8 di Genova del 2001 si trattava perlopiù di una manifestazione giovanile. In questo caso si tratta di una manifestazione corale, composta da ogni tipo di ceto sociale. Troviamo persone che non hanno mai partecipato a una manifestazione o che non hanno mai aderito a nulla che si trovano coinvolte emotivamente da quanto sta accadendo nella Striscia di Gaza. È come la goccia che cade in un vaso: per due anni sono cadute gocce e alla fine il vaso è traboccato». 

Non ci troviamo, quindi, di fronte a una mobilitazione come quella del Sessantotto?
«Parliamo di una mobilitazione molto partecipata come negli anni Settanta ma non giovanile, bensì di cittadini e persone normali che non ne possono più. Mentre tra le fine degli anni Sessanta e gli inizi dei Settanta c’erano quattro giovani sotto i 25 anni per una persona sopra i 65, oggi il rapporto è di uno a uno. I giovani praticamente non ci sono più. Quindi la mobilitazione è di persone mature e anziane: questa è la grandissima differenza». 

Le dure dichiarazioni della premier Meloni contro gli attivisti della Flottilla e i sindacati, in occasione dello sciopero generale del 3 ottobre scorso, denotano un certo nervosismo della presidente del Consiglio per questa grande mobilitazione pro Gaza?
«Nervosismo mi sembra ovvio. E, mi consenta, anche un alto tasso di volgarità. Un primo ministro non dovrebbe dire certe cose ma rappresentare gli interessi collettivi. Meloni, invece, si comporta da capofazione». 

A suo avviso, la premier teme che le manifestazioni possano influire sui suoi consensi?
«È sicuramente una cosa che smuove, anche se questo non avrà degli effetti immediati. È una cosa che vedremo nel corso del tempo. Ma, a mio avviso, non avrà riflessi sulle prossime elezioni regionali, forse neanche alle politiche. I movimenti sociali hanno degli effetti di lunga portata, difficilmente hanno un effetto elettorale immediato. Però è innegabile che qualcosa si stia muovendo, in una direzione ovviamente contraria alla destra». 

Tornando alle elezioni regionali. Che indicazioni ci danno il risultato nelle Marche e in Calabria, e cosa dobbiamo aspettarci dai prossimi appuntamenti, in Toscana, Veneto, Puglia e Campania?
«Quello delle Marche era l’unico possibile terreno di competizione tra centrodestra e centrosinistra, ma così non è stato, data la vittoria schiacciante del centrodestra. L’esito del voto in Calabria ci conferma che nelle altre regioni si avvererà quello che da tempo è previsto, con un risultato finale di 3 a 3. Ancora una volta si dimostra che c’è un congelamento degli elettorati di destra e sinistra e che in questa fase questo congelamento favorisce leggermente la destra. La vera questione è chi riesce a rimandare al voto tutta l’area degli astenuti, che in questi anni sono soprattutto astenuti di sinistra. Potenzialmente, quindi, esiste un elettorato ampio per la sinistra per invertire i rapporti di forza». 

Perché la sinistra non riesce più a convincere i suoi elettori, soprattutto i ceti più deboli?
«La grande differenza che oggi divide gli elettorati non è né di carattere socio-demografica né religioso ma di carattere territoriale. Chi abita nelle zone urbane vota a sinistra, chi abita nei piccoli centri vota a destra: questa è ormai una divisione che attraversa l’Europa e l’Occidente. Questo è dovuto al fatto che nelle aree urbane si concentrano il maggior tasso di istruzione e occupazioni più gratificanti sotto diversi punti di vista e dove ci sono maggiori consumi culturali e interazioni tra le persone. Tutto questo facilità l’apertura. Che vuol dire, nella mia interpretazione molto personale, l’apertura rispetto ai grandi principi che hanno creato la democrazia nell’Occidente, cioè quelli della “Liberté, égalité, fraternité”. L’apertura mentale che viene dal vivere in questo contesti urbani spinge a un’accettazione in senso ampio dei principi fondamentali della democrazia. Al contempo, gli altri vivono in territori dove si sentono abbandonati e dove i servizi iniziano a scarseggiare. Tutto questo provoca del risentimento, che poi va verso coloro che sono stati identificati come quelli che non hanno difeso le loro priorità e quindi li hanno abbandonati. Il voto a destra di queste aree è un voto di protesta nei confronti di coloro che, tradizionalmente, difendevano i più deboli. La sinistra non è stato in grado di farlo e quindi oggi ne paga le conseguenze». 

Lei ha sostenuto più volte che la sinistra può vincere solamente con il cosiddetto Campo Largo. Ma come si conciliano le tante differenze tra i vari partiti che lo compongono?
«Bisogna semplicemente cercare di conciliarle. D’altronde come si conciliava un partito che si chiamava Lega Nord e voleva l’autonomia del Nord con un partito che si chiama Forza Italia? O Salvini con la maglietta pro-Putin e le posizioni della Meloni sull’Ucraina? Non si conciliano. Eppure… Ovviamente bisogna trovare un minimo comune denominatore che spesso è dato dall’essere all’opposizione del governo».

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