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Home » Politica

Dalla strada sbarrata per il Quirinale all’irrilevanza sulla crisi Ucraina: Draghi ha perso il whatever it takes

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I partiti stanno prendendo sempre di più il sopravvento: con una maggioranza divisa su tutto le urne in autunno non sono più fantapolitica

Gli hanno già rovinato la festa una volta quando in ballo per lui c’era il settennato al Quirinale. E adesso Mario Draghi è preoccupato che siano pronti a dargli il resto, a sfregiargli fama e carriera, chissà forse pure il futuro. L’ultimo in ordine di tempo a usarlo come sacco da boxe che suona tanto come l’ultimo avvertimento prima che la spina venga staccata, è stato Giuseppe Conte. Che lo ha accusato del massimo della scorrettezza, ossia di non esser più garante della maggioranza perché pur potendo non ha fatto nulla per evitare che ai 5 Stelle venisse scippata la presidenza della Commissione Esteri finita poi nelle mani dell’azzurra Stefania Craxi. «Quel voto – ha detto il leader del M5S – certifica che l’attuale maggioranza di governo esiste solo sulla carta». Prima ancora è stato Silvio Berlusconi ad assestargli un bel pestone e dire che, al netto delle ipocrisie, «l’Italia è in guerra a tutti gli effetti perché invia le armi all’Ucraina». E soprattutto che in Europa non ci sono leader della statura necessaria per interloquire con Putin: insomma, è il ragionamento, ammesso che Mosca volesse trattare la pace dopo tre mesi di guerra devastante all’Ucraina, non avrebbe con chi farlo. Una implicita autocelebrazione di se stesso, campione dell’accordo Usa-Russia di Pratica di Mare, ma pure uno schiaffone a Draghi. Che all’inizio del confliitto è caduto in fuori gioco ed è stato costretto a annullare all’ultimo istante il viaggio a Mosca. E poi di lì si è trovato a rincorrere tutti gli altri leader checché l’ambizione fosse dall’inizio di giocare un ruolo di primo piano, aprendo un canale di dialogo diretto con il presidente russo e arrivare a far da garante alla conferenza di pace per la ne delle ostilità che non sembrano alle viste.

I conti con l’oste

Un risultato che consegnerebbe alla storia l’attuale inquilino di Palazzo Chigi richiamato in servizio in Italia, allora alle prese con la triplice emergenza economica-sociale-pandemica, dopo gli anni lucenti da banchiere centrale: per lui, laddove dovesse conquistarsi la medaglia del mediatore del conflitto, si aprirebbe un fulgido avvenire politico in Europa o forse alla guida della Nato, al posto di Jens Stoltenberg che lascerà tra qualche mese dopo una gestione dimenticabilissima perché troppo schiacciata, a detta di Berlusconi, Salvini, Conte e non solo, sui desiderata di Biden. Ma per il futuro Draghi dovrà fare comunque i conti con l’oste, che poi sono gli stessi partiti che l’hanno acclamato e poi hanno segato le sue aspirazioni per il Colle, mentre naturalmente gli promettevano ben altri successi: chi un posto da segretario Nato appunto, chi un ruolo da federatore di una coalizione di centro per assicurare un governo al Paese oltre il 2023.

Lui dall’umiliazione quirinalizia è uscito trasformato, ma poi si è adattato al nuovo corso che impone di ingoiare rospi a non finire, anche se lì per lì aveva sbottato perdendo quell’aplomb da superburocrate europeo che è da sempre la sua cifra. «Tanti, anche politici, mi candidano a tanti posti in giro per il mondo, mostrando una sollecitudine straordinaria nei miei confronti. Li ringrazio moltissimo, ma vorrei rassicurarli. Se per caso decidessi di lavorare dopo questa esperienza, un lavoro me lo trovo anche da solo…». Per dire che della politica ha imparato a darsi il giusto e rivendicare l’ordine delle grandezze tra lui e loro. Grandezze che però oggi sembrano assottigliate rispetto a un tempo: se a marzo 2021 Draghi era il salvatore della Patria a cui nessuno era in grado di dire di no, ora è ostaggio delle esigenze elettorali oltre che delle bizze da cortile. Che non lo rafforzano, tutt’altro, ne zavorrano le ambizioni già tutt’altro che luminose ora che le prestazioni deludenti dell’economia italiana languono, per usare un eufemismo.

Tu quoque…

La Commissione europea ha tagliato le stime di crescita dell’Italia e ha confermato che è finito l’effetto di trascinamento della ripresa straordinaria salutate con entusiasmo dall’Economist che ci aveva incoronato nel 2021 Paese dell’anno e va senza dire Draghi re del nuovo miracolo italiano. Si dirà: è colpa del conflitto in Ucraina e dell’annessa crisi del gas, certo. Ma non è un’analisi condivisa da tutti. L’ex premier Mario Monti per esempio è stato inclemente: «Se si pensa che il disavanzo solo raramente è buono e che la sostenibilità del debito può tornare ad essere un problema, allora bisogna affrettarsi a prendere decisioni anche impopolari, ma che rendano l’Italia meno fragile, prima che tornino personaggi sgradevoli come i tassi di interesse che salgono, gli spread che si allargano, l’inflazione. Purtroppo, tutto questo ha cominciato a riapparire ben presto. La guerra in Ucraina, destinata ad aggravare questo quadro, non l’ha però per nulla determinato, in quanto è intervenuta successivamente». Per poi aggiungere che il nuovo quadro turba tutti i Paesi, in particolare europei, ma non tutti allo stesso modo.

«Per esempio, lo spread Italia-Germania è salito da 90 punti base (all’inizio del governo Draghi) a 190 di venerdì scorso. Un aumento di 100 punti, mentre nello stesso periodo lo spread Spagna-Germania è salito di circa la metà (53 punti) e quello Portogallo-Germania ancor meno (39 punti)». E se lo spread sale salgono anche le difficoltà di imprese e famiglie e con esse le pressioni sul governo per ogni tipo di sussidio e bonus che finora è stato possibile erogare grazie alla prolifica Europa. Ma adesso bisogna iniziare a chiudere i rubinetti, come ha detto pure Paolo Gentiloni, uno dei maggiorenti del Pd, ossia l’alleato più solido di Draghi che è però anche commissario agli affari economici dell’Ue che l’altro giorno ha ammonito da Bruxelles: «La crisi attuale è simile a quella originata dalla pandemia, nel senso che è originata dall’esterno e non coinvolge responsabilità dirette dei governi, però non giustifica lo stesso livello di sostegno da parte delle politiche di bilanciò come avvenuto nel recente passato».

Come dire: i sostegni dovranno da oggi essere più mirati e selettivi, addio interventi a pioggia come da raccomandazione che la Ue formalizzerà tra pochi giorni nel cosiddetto pacchetto di primavera, nell’ambito del Semestre europeo.

Compromessi al ribasso

E per quanto un po’ di birra potrebbe venire ancora dal nuovo Recovery dell’energia ora più che altro c’è bisogno di limitare l’assalto alla diligenza dei partiti che esigono le solite mancette e che da mesi chiedono un nuovo scostamento di bilancio, ipoteca sul debito pubblico già enorme per le prossime generazioni. Ma soprattutto sarebbe necessario fare le riforme strutturali, concorrenza e fisco in primis su cui però il governo arranca, complice il pantano a cui lo inchiodano da mesi gli azionisti della sua maggioranza: due riforme approvate dal consiglio dei ministri in autunno cruciali per il Piano nazionale di ripresa e resilienza da cui dipende l’arrivo dei nanziamenti/prestiti europei, languono. Sul catasto è stato annunciato in pompa magna un accordo con Lega e Forza Italia, ma si tratta di un compromesso al ribasso rispetto agli intendimenti iniziali e comunque ancora non è definito. Mentre il dl concorrenza perde pezzi: pure qui il centrodestra dice di non voler rompere ma detta condizioni che potrebbero imporre, specie sulle concessioni balneari un compromesso non esattamente in linea con quello che chiede l’Ue e che Draghi si è impegnato a portare a casa. Sulla giustizia, altro tassello delle riforme necessarie per dimostrare che l’Italia ha cambiato marcia rispetto al passato, un accordo è stato trovato ma non è detto che tenga nel passaggio al Senato e comunque è un accordo che cambia pochino, ad essere onesti, sull’efficienza della giurisdizione: la riforma del sistema di elezione del Csm, per dire, difficilmente restituirà l’onore perduto con lo scandalo del Palamara gate.

Spettro elezioni

Con buona pace delle promesse, la tendenza ormai in atto da tempo è insomma quella del tirare a campare: a reggere i colpi che i partiti ormai in campagna elettorale devono assestare e assestarsi per la loro stessa sopravvivenza. Tanto che Carlo Cottarelli, l’ha detto tondo: la missione di Draghi è finita perché «il governo aveva due compiti, ossia affrontare la campagna vaccinale e portare a casa un accordo con l’Europa sul Recovery Plan. Ha raggiunto entrambi gli obiettivi e bene. Ma ora mi sembra che i partiti che sostengono il governo non stiano prestando la necessaria collaborazione. Si va avanti a forza di compromessi al ribasso».

Tradotto: meglio tirare i remi in barca e creare le condizioni per andare a votare al più presto prima di perdere definitivamente la bussola. O addirittura subire lo showdown, che tutti negano di volere mentre continuano a lavorarlo ai fianchi. I 5 Stelle di Conte, ma pure Salvini e ora anche Berlusconi sulla questione delle armi all’Ucraina hanno costretto il governo a congelare per ora il quarto decreto sull’invio degli aiuti militari. E a passare sotto le forche caudine dell’aula per un nuovo voto dopo le comunicazioni che Draghi dovrebbe offrire prima del Consiglio europeo straordinario del 30 e 31 maggio.

Un passaggio delicato anche se tutti assicurano che l’esecutivo non è rischio. Ma è rivelatore che il segretario del Pd Enrico Letta sia costretto a minacciare l’alleato pentastellato: ne dell’alleanza se tirerà un brutto scherzo all’esecutivo che deve proseguire indenne no alla ne naturale della legislatura. Come pure rivelatrici sono le parole di Guido Crosetto ascoltatissimo da Giorgia Meloni, che tenendo Fratelli d’Italia all’opposizione ha fatto fortuna: «Andare al voto anticipato sarebbe un regalo enorme al Governo uscente ed a chi teme di perdere le prossime elezioni perché significherebbe togliere loro la grana della prossima legge di bilancio che sarà probabilmente drammatica». Basterà questo asse inedito per la sopravvivenza del fu SuperMario? La litigiosità micidiale nei partiti e nelle coalizioni lo rafforza a Palazzo Chigi, ma poi è sempre vero l’antico adagio: i tecnici passano, la politica, quale che sia, riesce sempre a sopravvivere a se stessa.
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