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Pil e felicità vanno di pari passo? (di Marco Cappato)

Immagine di copertina
Credit: ansa foto

La ricchezza è misurata con scrupolo: Prodotto Interno Lordo, debito, deficit, crescita. Ogni piccolo scostamento è registrato in tempo reale.

Della felicità si sa molto meno. In parte perché non è un bene quantificabile e non esiste un’unità di misura. In parte perché si presume che grandi variazioni collettive di felicità dipendano dal benessere economico. Invece, l’infelicità può dilagare anche quando il PIL cresce.

L’azienda di sondaggi Gallup intervista ogni anno 150.000 persone da 140 Paesi, alle quali chiede di dare un voto alla propria felicità, da 0 (il peggio possibile) a 10 (il meglio).  16 anni fa, quando Gallup cominciò a misurare, era solo l’1,6% delle persone a definirsi “zero felice”. Ora sono più che quadruplicati. In India, ad esempio, nonostante la crescita economica sono il 21%.

Che i soldi non facciano la felicità sarebbe una conclusione altrettanto superficiale. Il rapporto evidenzia come fattori critici il tipo di lavoro, il luogo in cui si vive e le condizioni di salute, tutti elementi legati anche al benessere economico

Il rapporto Gallup non pretende di dare spiegazioni scientifiche alla felicità, ma cerca di valutare il peso di diverse variabili sociali ed individuali, come ad esempio: reddito pro-capite, supporto sociale, aspettativa di vita, libertà di scelta, generosità, corruzione. Sempre senza azzardare rapporti diretti di causalità, dando una scorsa alla classifica, balza all’occhio che per trovare una non-democrazia bisogna scendere fino al 21esimo posto, dove si piazza il Bahrain. Il gruppo di testa è composto da Finlandia, Danimarca, Islanda, Svizzera, Olanda. In fondo alla classifica Botswana, Rwanda, Zimbawe, Libano e, ultimo, Afghanistan. L’Italia è al 31esimo posto.

Il rapporto tra felicità e politica andrebbe approfondito. Se è possibile intuire delle correlazioni positive con la democrazia, va anche notato come lo stesso rapporto Gallup evidenzi una dimensione collettiva dell’infelicità, espressa in termini di “malcontento civico”: disordini, scioperi, manifestazioni antigovernative sono nell’insieme cresciute del 244% dal 2011 al 2019. Sottovalutare l’insoddisfazione popolare può portare pesanti conseguenze politiche. Finora non si è trovato uno strumento meno rozzo della democrazia per sapere qualcosa di ciò che pensa la gente, ma le elezioni sono un utensile sempre meno efficace e la partecipazione diretta dei cittadini tra un’elezione e l’altra è un obiettivo ancora lontano da raggiungere.

Nel frattempo, i vari tentativi istituzionali di sostituire o almeno affiancare il PIL ad altri indicatori di misurazione della qualità della vita non si sono affermati nel discorso economico, ma neanche in quello politico. Un PIL che corre può nascondere devastazione ambientale, disuguaglianze, povertà di relazioni, alienazione, infelicità diffusa. Ma sarà sempre salutato come un PIL che corre, con tanti complimenti per la “crescita” da parte di quasi tutti (che vissero per sempre felici e contenti, ma solo nelle fiabe).

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