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Altro che atlantismo, dietro la scissione M5S si nasconde l’operazione Draghi-bis

Immagine di copertina
Mario Draghi e Luigi Di Mario. Credit: Ansa

Luigi Di Maio rappresenta l’ultimo responsabile di una lunga sfilza di prodighi e valorosi esponenti politici che hanno sacrificato la loro ambizione personale, finanche le loro idea sulla politica, a favore di un bene comune assoluto e di una salvezza nazionale.

Questa è una narrazione ciclica, ripetuta e logora, alla quale ormai non credono neanche gli stessi protagonisti che la mettono in scena, dai tempi di Scilipoti – senza scomodare le dinamiche da prima Repubblica – si giunge all’ennesima scissione nell’attuale Parlamento, manifesta con numeri in transumanza di parlamentari che da un giorno all’altro si candidano a rappresentare non si capisce bene chi e con quale legittimità elettorale, dichiarandosi nuovo soggetto politico. Sono fenomeni temporanei ad uso infortunistico, comunemente denominati stampelle, e concepiti, aldilà dell’eroica narrazione dei protagonisti che si vorrebbe mossa da valori e gesta, per meri motivi di Palazzo.

Mario Draghi è riuscito nell’intento principale del primo promotore del suo governo, Matteo Renzi, e di una sfilza di politici: hanno agito e sperato in questi mesi in un Movimento 5 Stelle disgregato. Oggi Draghi ha portato a casa uno dei risultati più importanti della politica conservatrice negli ultimi 15 anni, ovvero ha distrutto il grillismo. Ha distrutto quel movimento populista e anti-sistema, che ha monopolizzato nell’ultimo decennio il dibattito politico-culturale della gran parte dell’agenda politica. Si pensi solo al taglio del 30% dei parlamentari e a quanto umiliante quest’operazione sia stata, per tutti quei partiti che non l’avrebbero neanche mai immaginata, e che invece sono stati costretti a votare una legge che ripudiavano, con la coda in mezzo alle gambe.

Oggi, dopo una lunga sfilza di mirabolanti giravolte, non prima di aver verificato quali risultati delle ultime elezioni amministrative avesse raggiunto il suo partito, Luigi Di Maio decide di fare l’ultima scissione. Porta con sé 60 deputati e un gruppo più ristretto di senatori in quella che vorrebbe essere una disperata azione di responsabilità per rispondere all’odio di una politica che viene dipinta come degenerazione anti-atlantitsa dei 5 Stelle.

Nel farlo, il ministro degli Esteri sa bene di dare garanzie al “Governo dei migliori” con una corposa stampella, tale da permettere al consesso di maggioranza di evitare l’appoggio del Movimento 5 Stelle di Conte, e con esso di evitare scomode domande, emendamenti e azioni correttive sulla politica, come una normale vita democratica del Paese dovrebbe essere. Tale operazione, che si vuole raccontare come una escalation degli ultimi cinque giorni, scaturita da un sentimento di solidarietà al ministro Di Maio, in una sorta di risposta d’emergenza a un partito abbagliato da posizioni, antiamericane e antieuropeiste, è tutt’altro che un’operazione dettata dall’enfasi del succedersi di eventi ravvicinati; viene piuttosto il sospetto che sia qualcosa di meticolosamente architettato nei mesi e messo a punto nei dettagli. La ricerca di adesione all’interno dei gruppi parlamentari per numeri così corposi può essere soltanto il frutto di un lavoro più strutturato, nato dallo stesso gruppo dirigente del Movimento 5 Stelle, che ormai non aveva interesse alcuno a rimanere all’interno di quel partito.

Il primo motivo è indubbiamente la regola del secondo mandato: molti dei fuoriusciti non avevano speranza di ricandidatura nella prossima legislatura. Il secondo, altrettanto importante, è il calo dei consensi. Un calo generato dalla stessa classe dirigente di cui Di Maio è l’emblema, che oggi si dichiara indignata e rivendica il 33% delle ultime politiche, dimenticandosi di assumere le responsabilità di un crollo che loro stessi hanno scatenato con anni di aperta azione di incoerenza, caratterizzata dai continui apparentamenti indicibili e dai tanti compromessi inaccettabili per l’elettorato del Movimento. Si vorrebbe ora proporre agli elettori una ritrovata verginità politica che proprio non incanta nessuno, anzi getta scoramento unanime, non solo negli elettori dei 5S ma in generale su tutta la politica del Paese, e che probabilmente aumenterà le fila dell’astensione.

Evidente è come quest’operazione sia funzionale a un progetto più ampio del solo sostegno a Draghi in questa legislatura. Un progetto che bisognerebbe tenere bene in mente, perché prodigo al futuro prossimo e centrato sull’attuale sistema elettorale, che lascia ampi spazi di manovra da accordi post-voto, quando si saprà quanti e quali sono gli attori in campo.

Il progetto è il Draghi Bis. Il campo largo, lanciato dal Partito Democratico e caratterizzato con un termine appositamente coniato per non distinguerne i confini, così come le questioni all’interno del centrodestra e le forti indecisioni nel sostenere Giorgia Meloni, prefigura un progetto magmatico, ovvero mosso da forze non identificabili con chiarezza (i media, i gruppi d’interesse, le seconde linee dei partiti), imperniato sul centro quale attore principale, un centro che dirama il sistema di alleanze a destra e a sinistra da Forza Italia alla Lega dal Pd finanche ad Art1.

Diversamente dal bipolarismo degli ultimi 20 anni, solo di recente minacciato dal corpo “estraneo” del M5S, il progetto politico dell’elezioni del 2023 potrebbe non partire dall’ala destra o sinistra del Parlamento, ma piuttosto da un centro esclusivo dei radicalismi sotto la bandiera dell’atlantismo. Da questo progetto rimarrebbe fuori Conte, tanto più se accompagnato dal simbolo del M5S, Fratoianni e Sinistra Italiana, forse Articolo 1 a sinistra, Giorgia Meloni e altri partner minoritari a destra.

Quelli che saranno dentro invece li abbiamo visti tutti, in una galleria di nomi e volti che negli ultimi anni hanno creato piccole esplosioni politiche, a volte anche piuttosto deflagranti sempre in grado di cambiare gli assetti di governo, mai intenzionate a far saltare la legislatura. Una serie di attori esibitisi in diversi atti di questi ultimi cinque anni che riassumiamo con: la scissione di Renzi e la nascita di Italia Viva, l’abbandono del PD da parte di Calenda e la nascita dei Azione, l’uscita di Di Maio e la fondazione del gruppo “Insieme per il futuro”, e il quadro si chiude con Giorgetti della Lega che, lungi dal creare divisioni all’interno di un’organizzazione solida, si assicurerà invece che l’intero partito – Salvini incluso –  faccia parte della maggioranza post-elettorale. Un consesso che si vorrebbe trainato da alcuni nomi importanti, come Giuseppe Sala, lo stesso Nardella, il presidente della Regione Emilia Romagna, Bonaccini. Tale piano ha solide basi nel Partito Democratico e in Forza Italia, vista anche la propensione di alcuni loro leader ad immaginarsi più su un centro modernista, anche per cultura politica, piuttosto che a una polarizzazione radicale.

Uno scenario che si prefigura possibile e che proverà a lasciare nello stallo del minoritario chi come il vice-segretario Provenzano e molti altri all’interno del PD sta provando a fare un’incerta partita volta a sinistra, guardando a Conte quale interlocutore principale. Come nel caso dell’arrivo di Draghi a Palazzo Chigi, questa operazione non ha un accordo scritto né verbale tra gli interlocutori; è però sostenuto da un tam-tam della stampa e di molte sfere d’interesse nel Paese.

In questo momento Draghi ha una garanzia non solo sulla tenuta del Governo, ma anche su una probabile sua riconferma nel prossimo mandato.

Il Primo Ministro potrebbe ritrovarsi tale anche nella prossima legislatura, senza scomodarsi nel candidarsi e sporcarsi le mani con fastidiose campagne elettorali fatte di programmi e promesse. A fare questo lavoro saranno i partiti. Non lo diranno mai apertamente, anzi faranno corse solitarie tese a un “proporzionale puro” e mascherate da finte coalizioni, nella speranza di un risultato finale che restituisca un’ingovernabilità post-voto, con una riedizione di una disperata nomina per acclamazione di un “Governo dei migliori Bis”, scelto da una maggioranza “parlamentare” e di secondo livello, un mese dopo le elezioni del 2023.

Tutto ciò con il plauso dei media, degli economisti con la sindrome da spread e della finanza internazionale. Sono giochi da “italietta”, come la chiamava Pasolini, anche se stavolta le variabili in campo, soprattutto quelle internazionali, sono molto, molto insidiose.

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