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Home » Opinioni

Il paradosso dell’Ucraina: quando le elezioni non garantiscono la democrazia (di A. Lanzetta)

Immagine di copertina
Credit: AGF

Un (eventuale) voto nelle attuali condizioni non avrebbe nulla a che fare con il rispetto della volontà popolare ma appare solo un altro strumento di coercizione esterna

Donald Trump le chiede da mesi ma ora Volodymyr Zelensky sembra pronto ad accettare la prospettiva di organizzare nuove elezioni in Ucraina, malgrado la legge marziale in vigore dall’inizio della guerra scatenata dalla Russia. Paradossalmente però questo voto avrebbe ben poco a che fare con il rispetto della volontà popolare, vediamo perché.

Il nuovo scontro tra Trump e Zelensky
«Parlano di democrazia, ma si arriva a un punto in cui non lo è più», ha detto Trump in un’intervista condotta da Politico alla Casa Bianca l’8 dicembre scorso. «Credo che sia un momento importante per indire le elezioni. Stanno usando la guerra per non organizzarle ma credo che il popolo ucraino dovrebbe avere questa scelta. E forse vincerebbe Zelensky. Non lo so. Ma non hanno elezioni da molto tempo». Un monito già lanciato dallo stesso presidente Usa dalla sua residenza privata di Mar-a-Lago, in Florida, nel febbraio scorso, quando il tycoon definì il capo di Stato ucraino «un dittatore mai eletto».
Ma se allora Zelensky rispose piccato ai rilievi della Casa bianca, accusando Trump di essere «disinformato» dalla propaganda russa, ieri il presidente di Kiev ha aperto alla possibilità di indire nuove elezioni, a condizione però di ricevere un aiuto in questo senso dagli alleati in Europa e negli Usa. «Ho sentito dire che ci stiamo aggrappando al potere, o che io personalmente mi sto aggrappando alla presidenza. A dire il vero, questa è una storia completamente infondata. Sono pronto per le elezioni», ha dichiarato Zelensky da Roma a margine della sua visita alla premier Giorgia Meloni. «Chiedo ora, dichiarandolo apertamente, che gli Stati Uniti mi aiutino, possibilmente insieme ai colleghi europei, a garantire la sicurezza delle elezioni», ha aggiunto, affermando inoltre che, con il contributo dei partner internazionali, Kiev potrebbe essere pronta al voto entro «i prossimi 60-90 giorni». Ma cos’è cambiato negli ultimi 10 mesi? Niente o quasi, in realtà.

Pressioni esterne
Così come a febbraio, ancora oggi continuano i sanguinosi scontri lungo il fronte (specie in Donbass) e non si fermano i bombardamenti russi in tutta l’Ucraina, dove un quinto del territorio nazionale è tuttora sotto occupazione. Oltre 5,1 milioni di rifugiati si trovano all’estero, quasi 3,7 milioni sono sfollati interni e un numero imprecisato (nell’ordine di qualche altro milione) vive sotto occupazione nelle regioni illegalmente annesse dalla Russia. Almeno 900mila cittadini sono sotto le armi, di cui un terzo impegnati in prima linea. Altri 1,2 milioni fanno parte della riserva militare, uomini e donne inquadrati sotto specifici comandi e che possono essere richiamati a combattere in ogni momento. Garantire la libertà di voto in una situazione simile, per di più senza un cessate il fuoco in vigore, appare una missione impossibile. Ma allora di cosa si tratta?
Come 10 mesi fa, anche oggi la Casa bianca usa la carta della presunta illegittimità dell’attuale governo ucraino per fare pressioni su Kiev e, indirettamente, sui suoi alleati europei che sbandierano Zelensky come il totem del leader del Paese aggredito senza cui non si può concludere alcuna pace. Allora si trattava di fare ingoiare all’Ucraina un accordo (alla fine saranno tre diversi memorandum) dal sapore neocoloniale, con cui gli Usa si sono garantiti diritti di prelazione sull’estrazione mineraria (soprattutto di minerali critici come le terre rare) e una quota paritaria con Kiev in un fondo congiunto per la ricostruzione post-bellica, tutti punti poi finiti nella proposta di pace gradita a Mosca. Oggi invece serve convincere gli ucraini e quindi i loro alleati europei ad accettare proprio quel piano accolto dal Cremlino, nella speranza (di Washington) che questo basti ad allontanare la Russia dalla Cina e a riavvicinarla agli Usa.

Prospettive a breve termine
Allora ci vollero tre mesi, una sfuriata in diretta mondiale alla Casa bianca e le pressioni degli alleati europei per obbligare Zelensky ad accettare l’accordo con il ricatto di non ricevere più aiuti, oggi chi lo sa. Ma se non dovesse funzionare e le eventuali elezioni ucraine partorissero un nuovo presidente più accomodante con Trump (e magari con Putin), la Casa bianca potrebbe considerarla comunque una (parziale) vittoria, togliendo anche ai riottosi alleati del Vecchio continente la foglia di fico dell’eroe solitario rimasto da anni a difesa di Kiev.
D’altronde, da mesi, il magnate repubblicano va ripetendo alle telecamere che il principale ostacolo ai negoziati con il Cremlino riguarda il pessimo rapporto personale tra Zelensky e Putin. «Si odiano», ha detto più volte e non potendo (né probabilmente volendo) sostituire l’ammirato leader russo, non si strapperebbe di certo i capelli davanti a un passo indietro del presidente ucraino. Se invece Zelensky dovesse piegarsi e accettare la proposta della Casa bianca, le elezioni potrebbero facilmente essere rinviate a dopo la firma dell’accordo e tenersi proprio in conseguenza di quest’ultimo, registrando una chiara vittoria per il presidente Usa. Perché invece il leader ucraino presta ora il fianco a tale pressione? Perché sin dall’insediamento di Trump, dal loro primo scontro alla Casa bianca e poi nei vari faccia a faccia dalla Basilica di San Pietro a Washington ha compreso di aver perso per sempre ogni appoggio politico degli Usa, comunque vada a finire la guerra. Ma tutto questo favorisce il negoziato e avvicina la pace? Nessuno può dirlo per certo, anche se le richieste russe accolte dal piano originale in 28 punti presentato dalla Casa bianca vanno ben oltre la sola organizzazione di nuove elezioni in Ucraina e l’eventuale sostituzione di Zelensky alla guida del governo di Kiev.

Volontà popolare o di potenza?
Il voto comunque sembra avere poco a che fare con la democrazia e il rispetto della volontà popolare ucraina ma appare come un altro strumento di coercizione esterna. Per garantire elezioni davvero libere servirebbe infatti un cessate il fuoco lungo tutto la linea del fronte, il ritorno alle proprie case degli sfollati interni, dei rifugiati all’estero e dei deportati in Russia, il ritiro delle truppe di occupazione di Mosca, la smobilitazione militare ucraina, la liberazione e lo scambio di tutti i prigionieri di guerra, solide garanzie di sicurezza per entrambe le parti, l’abrogazione della legge marziale, la legalizzazione di tutti i partiti politici e la libertà di trasmissione e pubblicazione per i media in Ucraina, l’esclusione di interferenze esterne da parte del Cremlino e ispettori terzi schierati sul campo che possano assicurare uno svolgimento corretto, trasparente e senza violenze della competizione elettorale. Nessuno però sembra pretendere tali (minime) condizioni né pare al momento probabile un simile scenario, che sarebbe quasi prossimo alla pace.
Magari allora in primavera assisteremo anche a nuove elezioni in Ucraina con i seggi bombardati o le urne nelle trincee, ma questo non spegnerà di certo le polemiche, alimentate da Mosca sin dall’inizio dell’invasione, sulla legittimità e il tasso di democraticità del governo di Kiev, che continuerà anche a essere perseguitato da gravi problemi di corruzione. Anzi, considerare libero un voto organizzato senza un cessate il fuoco e con milioni di persone sotto le armi, rifugiate all’estero, sfollate, residenti in quel quinto del Paese tuttora sotto occupazione straniera è come pensare che il VAR possa risolvere le polemiche sugli errori arbitrali nel calcio. Ottime intenzioni, magari anche professate (da qualcuno) in buona fede per raggiungere finalmente la pace, ma la realtà sul campo poi è un’altra cosa.

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