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Home » Opinioni

Il piano di Trump è l’unica via possibile per la pace in Ucraina

Immagine di copertina
Credit: AGF

L’accordo in 28 punti negoziato con la Russia è migliorabile. Ma, a differenza di ciò che si è detto, non è un regalo a Mosca. È una resa dell’Ucraina, nel rispetto però di certe condizioni. Gli europei non cedano alla tentazione di farlo naufragare

Il piano di pace in 28 punti di Steve Witkoff è stato visto da molti commentatori autorevoli come una presa in giro, un documento russo mal tradotto, ed è stato prematuramente dichiarato superato da una nuova versione in 19 punti concordata a Ginevra dagli europei con il Segretario di Stato Rubio. Il problema è che questa nuova versione, certamente più equa, è però inaccettabile per la dirigenza russa, dato che smonta alcuni dei capisaldi che Putin considera irrinunciabili e sostiene di aver concordato con Trump ad Anchorage. A cominciare dalla cessione di tutto il Donbass e il  ridimensionamento delle forze armate ucraine. Gli europei rifiutano persino l’impegno a lungo termine a non accogliere l’Ucraina nella Nato. 

Senza questi elementi chiave, Mosca perde interesse al piano Trump e si dispone a conquistarseli sul campo di battaglia. Una prospettiva che potrebbe indurre Trump a riproporre a Zelensky un ultimatum sul piano originario (salvo limitati aggiustamenti), con buona pace di Rubio e degli europei. 

Quanto fondata è la tesi che il piano in 28 punti fosse una lista dei desideri di Mosca recepita da un ingenuo Witkoff?  In quanto frutto di una trattativa fra lui e il finanziere Kirill Dmitriev, molto vicino a Putin, è naturale che qualche disposizione sia stata proposta da quest’ultimo e suoni perciò tradotta dal russo. Ma ciò non significa che l’intero documento sia stato dettato dalla parte russa.

Fermo restando che il piano delineava una pace ingiusta, semplicemente perché una pace giusta non era “nelle carte”, quello che ci interessa capire è se si avvicinasse alla migliore pace possibile tenuto conto dei rapporti di forza che vediamo sul campo. 

1. Dispute territoriali
Fra le clausole territoriali (punto 21) la perdita della Crimea e del Donbass fino alla linea di contatto (regione di Luhansk e gran parte di quella di Donetsk) era scontata. Arbitraria è invece l’imposizione all’Ucraina di ritirarsi da quella parte del Donetsk che ha finora difeso con successo, al prezzo di decine di migliaia di caduti ucraini. Una vessatoria buonuscita dalla guerra, ostinatamente pretesa dall’aggressore e ora inclusa nel piano Trump pur di mettere fine alla “inutile strage”. Questo territorio dal quale l’Ucraina dovrebbe ritirarsi (grande quanto la Liguria, circa 5.000 kmq) viene definito «zona cuscinetto», smilitarizzata, ma da riconoscersi come appartenente alla Federazione Russa. In cambio questa si ritirerebbe dalle zone che ha occupato nelle regioni di Dnipropetrovsk e Kharkiv (circa 2.500 kmq).

Dal punto di vista di Mosca, l’acquisizione integrale del Donbass è un minimo irrinunciabile per il belligerante che è in marcia verso la vittoria. Mentre, sempre nell’ottica russa, è una generosa concessione non pretendere altrettanto per le altre due regioni prematuramente annesse sulla carta nel 2022, i cui capoluoghi sono ancora in mano ucraina (Zaporijjia e Khersòn), accontentandosi di quanto già occupano. 

Questo era il “compromesso” delineato nel famigerato colloquio in Alaska, che perciò non è stato un buco nell’acqua come spesso viene presentato, ma la prima fase dell’attuale processo verso quello che Trump considera un realistico compromesso territoriale. Processo interrotto dal rifiuto ucraino e ora ripreso a seguito dei progressi dell’avanzata russa che fanno presagire una ineluttabile ancorché lenta conquista di tutto il Donetsk. Le recenti dichiarazioni fatte da Putin a Bishkek gettano un’ombra di dubbio su quella presunta concessione.

2. Garanzie di sicurezza
L’altro capitolo più problematico del documento è quello riguardante la sicurezza. Il ridimensionamento delle forze armate dell’Ucraina a 600.000 uomini (punto 6) rappresenta una limitazione della sovranità, principio ribadito al punto 1; ed è discutibile in mancanza di restrizioni alle forze della Russia, quasi che fosse la prima a minacciare la sicurezza della seconda.

D’altro canto, di una limitazione unilaterale l’Ucraina aveva accettato di discutere nel corso dei negoziati di Istanbul nel marzo-aprile 2022, senza giungere ad un accordo; e 600.000 è un numero molto più alto di quelli allora proposti dai negoziatori sia russi che ucraini. Elevare il tetto a 800.000, come chiesto dagli europei, comporterebbe una riduzione minima rispetto al livello attuale. Non risulta che il piano menzioni limitazioni alle forze aeree e missilistiche, di cui si era discusso a Istanbul nel 2022. 

Cruciale per Kyiv è il punto 5, quello che riconosce il diritto dell’Ucraina a «ricevere affidabili garanzie di sicurezza». Secondo gli europei andrebbe meglio specificato. Il negoziatore ucraino Umerov ha comunque ottenuto che in un apposito documento venga stabilito che «gli Stati Uniti e gli alleati Nato tratterebbero un attacco contro l’Ucraina come un attacco all’intera comunità transatlantica». È praticamente l’equivalente dell’articolo 5 del Trattato Atlantico, secondo la proposta fatta dalla presidente Meloni. E ulteriori progressi sembra abbia raggiunto nei successivi colloqui con Rubio, Witkoff e Kushner in Florida. 

Altre clausole di sicurezza appaiono ragionevoli, e quasi tutte sono state dichiarate accettabili da Zelensky in passato (eppure alcune sono state respinte dagli europei a Ginevra): un trattato di non aggressione (punto 2) «fra Russia, Ucraina e Europa» (terminologia sciatta: si intende Ue e  Gran Bretagna?); il divieto di adesione dell’Ucraina all’alleanza atlantica iscritto nella costituzione ucraina e in un atto legislativo della Nato (punto 7); analoga formalizzazione, con una legge, della «policy» russa di non aggressione verso l’Europa e l’Ucraina (punto16); rinuncia dei Paesi Nato a collocare loro forze in Ucraina (punto 8); nullaosta russo allo stazionamento di aerei caccia europei in Polonia (punto 9); perdita dei diritti stabiliti dal presente accordo se l’Ucraina invade la Russia o viceversa (punto 10); conferma dello status non nucleare dell’Ucraina ai sensi del trattato Npt (punto 18). 

L’impegno della Nato a non espandersi ulteriormente verso Est e della Russia a non invadere i suoi vicini è una clausola opportuna, anche se va detto che implica una discutibile simmetria fra aderire liberamente a un’alleanza ed essere fagocitati da un aggressore (inoltre l’impegno è formulato in modo poco rigoroso: «it is expected»). 

Irrituale, per non dire indecente, ma coerente con le successive disposizioni sulla ricostruzione, è il primo comma del punto 10: «Gli Stati Uniti riceveranno un compenso per la garanzia»; è da auspicare, anche nell’interesse dell’immagine dell’America, che non figuri nella versione finale. 

3. Chi paga la ricostruzione
La disponibilità della Russia a impiegare una parte considerevole (100 miliardi di dollari) dei suoi fondi congelati per la ricostruzione dell’Ucraina e altri investimenti nel Paese (punto 14) sarebbe, se confermata, una concessione significativa da parte di Mosca. 100 miliardi è meno dei danni di guerra causati dalla Russia. Ma non è affatto detto che Mosca accetti questa responsabilità, e quindi il finanziamento della ricostruzione è un rebus.

La legalità dell’utilizzazione di gran parte di quei fondi congelati (140 miliardi) come anticipo o pegno per le riparazioni contro il volere di Mosca, secondo la proposta  di Ursula von der Leyen, è controversa. Il Belgio, dove si trovano in gran parte quei fondi, vi si oppone fermamente, temendo che la Russia possa vincere una eventuale causa davanti a un tribunale. E la Banca Centrale Europea si preoccupa delle reazioni dei mercati finanziari. 

Un accordo per cui la Russia accetti di privarsi di un terzo di quei fondi appare come una buona soluzione, sia pur parziale. Eviterebbe uno scontro al Consiglio Europeo del 18 dicembre. 

Quanto agli Stati Uniti, che pretendono la guida del programma e il 50% dei profitti che ne deriveranno, il punto 14 rivela il carattere neo-coloniale, per non dire predatorio, della filosofia di Witkoff e Trump. 

Il resto dei fondi russi congelati verrebbe investito in un fondo di investimento russo-americano inteso a cementare le relazioni fra i due Paesi. L’Europa (si intende anche qui l’Unione Europea e il Regno Unito?) dovrà contribuire, senza essere stata consultata, per altri 100 miliardi alla ricostruzione dell’Ucraina. Di fronte alla prospettiva di un dopoguerra in cui l’America fa cospicui affari con la Russia vorrà l’Europa condannarsi ad una guerra economica e ibrida con Mosca mettendo le mani sui suoi fondi congelati? 

4. Amnistie
La rinuncia a punire l’aggressore perché non sconfitto è inevitabile, per quanto moralmente deplorevole. L’immunità a Putin può sembrare inconciliabile con i nostri impegni verso il Tpi (Tribunale Penale Internazionale, ndr); va però ricordato che il mandato di arresto spiccato dal Tribunale dell’Aja riguarda non l’aggressione bensì la deportazione di orfani e altri bambini non accompagnati. Questo problema, insieme ad altri di natura umanitaria, viene affrontato al punto 24 che, se attuato, dovrebbe portare all’archiviazione del procedimento.

Una soluzione di compromesso potrebbe consistere nell’immunità per le cariche politiche e processi per crimini di guerra contro singoli militari. 

La revoca delle sanzioni sarà graduale. Stati Uniti e Russia concluderanno un accordo di cooperazione economica a lungo termine in vari campi, fra cui energia, intelligenza artificiale, terre rare, progetti minerari nell’Artico (punto 13). 

Indigesti sono per gli europei la riammissione della Russia nel G8  (ultimo comma del punto13) , la «piena amnistia» promessa a tutte le parti (interessa anche a varie persone vicine a Zelensky) e la rinuncia a qualsiasi indennizzo (punto 26). 

5. Chi governa il dopoguerra
La “governance” del nuovo assetto, come nel caso di Gaza, riflette la volontà egemonica degli Stati Uniti, e personalmente di Trump: il monitoraggio dell’attuazione dell’accordo dovrebbe essere affidato ad un Peace Council da lui presieduto (punto 27). Il punto 15 istituisce un gruppo di lavoro russo-americano per assicurare il rispetto di tutte le disposizioni dell’accordo. A Ginevra gli europei hanno, giustamente, chiesto che venga allargato a loro stessi e agli ucraini.

6. Lingua, cultura, elezioni
Il punto 20 mira ad eliminare quella che secondo Mosca è una delle radici del conflitto: le discriminazioni contro lingua, cultura e simboli russi. Ma è formulato in termini blandi: impone di promuovere nei programmi scolastici ucraini la comprensione reciproca e di abolire ogni discriminazione nell’istruzione e nei media; e impegna anche la Russia a fare altrettanto.

Che l’Ucraina debba adottare regole di tolleranza religiosa e la protezione delle minoranze linguistiche è una clausola di buon senso. Il divieto di ogni attività nazista è solo un contentino cosmetico dato a Mosca: il suo obiettivo di «denazificare» il Paese era originariamente inteso come repressione di ogni forza o manifestazione nazionalista. 

Il termine di soli 100 giorni per la fissazione di nuove elezioni, poco realistico, è invece una poco opportuna concessione alla fretta di Putin di mandare a casa Zelensky. 

Il quadro complessivo
Nelle attuali circostanze questo piano, con tutti i suoi difetti, è l’unica via possibile per mettere fine alla guerra. Potrà essere migliorato ma senza alterarne l’equilibrio complessivo. 

Qualora Trump insistesse sull’accoglimento di tutte le modifiche concordate fra il Segretario di Stato Rubio e gli europei, i russi avanzerebbero nuove pretese altrettanto incisive o, più probabilmente, abbandonerebbero la via negoziale. Trump non si fa illusioni sulla propensione dei russi a ridimensionare le proprie richieste. Putin ha infatti più volte dichiarato che non ha fretta di giungere ad un accordo, e anzi ha ora rispolverato la vecchia tesi (priva di fondamento nel diritto internazionale) secondo cui Zelensky è un presidente illegittimo e quindi non sarebbe abilitato a firmarlo.

Il presidente ucraino è consapevole che l’alternativa all’accettazione del piano è una continuazione dell’avanzata russa fino alla piena conquista del Donbass, ma con la possibile occupazione parziale anche di altre regioni e una espansione degli appetiti territoriali di Mosca. Sta cercando, certo, di ottenere alcune delle migliorie discusse a Ginevra, grazie all’appoggio di Rubio. Ma sa che tendendo troppo la corda rischierebbe di dover pagare un prezzo ancora più alto a seguito di un disinteressamento di Trump o di una piena sconfitta militare. 

Putin potrebbe ad esempio rivendicare l’intero territorio non solo del Donetsk ma anche delle regioni di Zaporijjia e Khersòn, pretendere il riconoscimento de jure delle annessioni, esigere una più drastica riduzione delle forze armate ucraine, bocciare l’utilizzo di parte dei suoi fondi congelati per la ricostruzione dell’Ucraina, chiedere il pieno sfruttamento (invece del 50%) della centrale nucleare di Zaporijjia che i russi attualmente occupano, insistere sul ritiro immediato di tutte le sanzioni. 

Gli europei, in particolare i britannici, sono spesso stati accusati a torto di avere spinto Zelensky nell’aprile 2022 a rigettare un accordo quasi fatto nei colloqui di Istanbul (in realtà i principali nodi erano ancora irrisolti). Non devono cedere alla tentazione di farlo ora, al prezzo di varie decine di migliaia di altri caduti ucraini. 

Ad una analisi oggettiva, questa pax trumpiana non è un regalo su tutta la linea alla Russia, che aveva obiettivi ancora più massimalisti. Se andrà in porto, sarà una resa dell’Ucraina ma non una resa senza condizioni. 

È certo la negazione del principio dell’integrità territoriale, che Mosca si era impegnata in vari accordi internazionali a rispettare. È quindi un’affermazione del diritto del più forte. E mina la fiducia nel principio «pacta sunt servanda». Segna il passaggio a un nuovo ordine internazionale dominato dagli interessi delle grandi potenze dotate di armi nucleari e di potenti arsenali convenzionali e decise ad usare la forza non solo a scopo difensivo. Un ordine in cui l’Europa, colpevole di aver voluto godere del dividendo della pace trascurando la deterrenza, non ha praticamente voce in capitolo, neanche quando viene chiamata a pagare buona parte del conto per la ricostruzione di un Paese aggredito.

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