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Pennivendoli: così il rapporto malato con la politica ha fatto crollare la credibilità del giornalismo italiano

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La lingua italiana è ricca di vocaboli come nessuna. Abbiamo almeno una parola per definire esattamente qualunque cosa: oggetto o essere animato, incluse le loro funzioni e qualità. Alla lettera “P” si trova dunque il termine «pennivendolo», ossia «chi fa della propria capacità di scrivere (come autore di libri, giornalista, collaboratore di riviste) un uso mercenario facendosi, anche in contrasto con le proprie convinzioni, sostenitore degli interessi di chi gli assicura maggiori vantaggi personali» (Treccani). La parola ha fatto ingresso nel vocabolario della lingua italiana da circa un secolo, tanto che la stessa Treccani ne indica l’origine in una frase dello scrittore interventista, futurista e fascista Giovanni Papini.

Bella esclusiva!

In altre lingue non mancano locuzioni spregiative per i giornalisti mediocri o in malafede. Ma «pennivendolo» è solo italiano. Il che dice tutto a proposito della reputazione che ci insegue, almeno dall’epoca fascista. E con noi insegue anche i giornali, continuando ad allontanare gente dalle poche edicole rimaste. Tanto da domandarsi se e quanto tale reputazione sia giustificata. L’ostilità verso la stampa dei movimenti qualunquisti, complottisti e sovranisti è ovunque nel mondo seconda soltanto a quella verso le banche. Perfino gli Stati Uniti, Paese nel quale la libera informazione è sacra al punto che i giornalisti possono conoscere le telefonate del segretario al Tesoro (e così hanno scoperto il ruolo di Henry Paulson nel salvataggio di Citicorp e nel crac di Lehman Brothers), hanno avuto per quattro anni un presidente che ha fatto propaganda accusando i giornali di dare notizie false.

Questo per dire che la crisi reputazionale dell’informazione ha anche radici globali. Ma in nessun’altra parte del mondo diversa dall’Italia il partito di maggioranza governativa votato nel 2018 da un terzo degli elettori ha mai pubblicato ogni giorno sul proprio organo ufficiale, nella fattispecie il blog del Movimento 5 stelle, il nome dei giornalisti da mettere all’indice. Succede all’inizio dell’avventura governativa grillina, quando ancora il Movimento 5 stelle si ritiene una forza antisistema e manifesta un’avversione radicale nei confronti di tutti i media. Quella colonna infame serve a identificare l’informazione tradizionale con un potere sfruttatore e corrotto, di cui la stampa non è che lo strumento per condizionare le masse attraverso mitiche fake news. E i giornalisti sono attori del complotto. Una tesi completamente strampalata, se si eccettua una minuscola punta di verità. Che è però all’origine di tutto questo. Perché non c’è nazione democratica dove i giornalisti siano stati, e siano ancora, così vicini alla politica. Di riflesso, al potere. Ne sono nate ironie avvilenti, tipo quella che in Italia i giornalisti sarebbero cani da compagnia del medesimo potere, anziché cani da guardia.

Una metafora cretina, buona per i leoni da tastiera. Ci sono giornali e giornalisti coraggiosi che hanno combattuto e combattono per la verità: qualcuno ci ha rimesso anche la pelle…
Continua a leggere l’articolo sul settimanale The Post Internazionale-TPI: clicca qui

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