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    La Calabria pensi a sopravvivere, che il lusso di sperare non le è concesso

    Jole Santelli, candidata per il centrodestra, con Antonio Tajani, dopo il successo nelle elezioni rgionali in Calabria, Catanzaro, 27 gennaio 2020. ANSA/LUIGI SALSINI
    Di Laura Melissari
    Pubblicato il 27 Gen. 2020 alle 12:38

    La Calabria pensi a sopravvivere, che il lusso di sperare non le è concesso.

    Aspettavo con impazienza l’elezione di una donna a governatrice della Calabria. E quando è arrivato quel giorno, è stato tristissimo. Perché ad aver vinto è una donna sì, ma la stessa che “in 26 anni non l’ha mai data a Berlusconi”. In Calabria i risultati delle elezioni sono sempre prevedibili: vince chi non ha governato fino a quel momento. Il voto di liquidazione: liberarsi il prima possibile di quello che c’è stato, visto che ha fatto un disastro. Un disastro in una Calabria che è la terra più bistrattata d’Italia. Dove l’affluenza è bassa, e il lavoro è un miraggio. Terra maledetta, terra da cui prendere e mai restituire.

    Avrei tanto voluto un Bonaccini da votare, per andare al seggio, dopo essermi fatta 700 chilometri da fuori sede, quantomeno soddisfatta. E invece, per l’ennesima volta, un voto per mettere una pezza. Un voto per impedire a qualcun altro di vincere. Jole Santelli, col suo 55 per cento surclassa Pippo Callipo. Io di lei in campagna elettorale mi ricordo solo di un video di qualche tempo fa e ritirato fuori per l’occasione, in cui diceva che l’Isis era un progetto per fermare il terrorismo. E per il geniale comizio in cui Silvio Berlusconi a Tropea dice: “Conosco Jole da 26 anni, e non me l’ha mai data”. E la gente giù tutta a ridere, a sbellicarsi. Lei stessa, lei per prima.

    Di Pippo Callipo mi ricordo ancora meno. Ma d’altronde della Calabria non importa e continuerà a non importare niente a nessuno. Ai suoi cittadini per primi. Una campagna elettorale talmente low profile da sembrare che il 26 gennaio dovesse votare solo l’Emilia Romagna. Se da una parte, a nord, c’erano l’isteria e l’affanno di un voto regionale che era termometro degli equilibri di potere nazionali, dall’altra, a sud, c’era un voto di cui nessuno parlava, che non trovava spazio sui giornali, semplicemente perché era già scritto.

    Il plebiscito di voti della destra era un “vabbè tanto peggio di quello che c’è stato finora, non può essere”. Lo stesso plebiscito che 5 anni fa portò alla vittoria di Oliverio col 61 per cento contro il 23 della candidata di destra Wanda Ferro. Quattro anni prima? La vittoria schiacciante di Giuseppe Scopelliti, ex sindaco di Reggio Calabria, e in carcere dal 2018, che nel 2010 batté Agazio Loiero, del centro sinistra per 57 a 32 per cento. Un copione già scritto: percentuali bulgare e corsa a rimpiazzare quello che c’è stato prima. Sopravvivere intanto, ma di sperare in qualcosa di bello, di valido, neanche a parlarne. Senza progetti validi, senza visioni politiche che rendano giustizia a una terra devastata da approssimazione, ‘ndrangheta, malgoverno, ‘ndrangheta, disoccupazione, ‘ndrangheta, servizi allo stremo, ‘ndrangheta, corruzione, ‘ndrangheta.

    La Calabria, la terra di Gratteri, lasciata ancora una volta a marcire. Ma davvero quello che ci meritiamo è solo il mare più bello d’Italia, il sole e i paesaggi mozzafiato dalla Sila allo Stretto? Tutto molto bello. Ma veramente deve andare a finire sempre così? Pochi giorni fa ho visto il bellissimo film di Mimmo Calopresti, Aspromonte, ambientato negli anni Cinquanta.

    Gli abitanti di Africo, allo stremo perché moriva l’ennesima donna e non c’era un medico nel paese, decidono di costruirsi una strada da soli, per collegarsi alla marina. Se il prefetto non mantiene la promessa di mandare un medico condotto nel paesino sperduto dell’Aspromonte, almeno andiamo noi, con una strada agevole, dicono. E si rimboccano le maniche. Ma mentre i lavori proseguono, sia il prefetto che il mafioso di turno arrivano a mettersi di traverso. E la strada alla fine non si fa. È il riassunto perfetto di quello che da secoli succede in Calabria: lo stato è assente, i cittadini non hanno neanche i servizi e i diritti più essenziali, e il mafioso se la comanda, un giorno gioca a fare il supplente dello Stato, e l’altro ti spara a colpi di lupara, per rimetterti al tuo posto se hai osato troppo.

    Un riassunto semplicistico, può darsi, ma è quello che succede in un paese dove i diritti sono gentili concessioni, dove il lavoro è la più grande preoccupazione, ed emigrare è l’unica alternativa, dove le scuole, gli ospedali e i servizi in generale sono il fanalino di coda dell’Italia. E dove, ancora una volta, ci si deve ingegnare su come sopravvivere, e il lusso di poter fare progetti a lungo termine.

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