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Hanno combattuto l’Isis per Usa e Ue e ora li vendiamo ad Ankara: così abbiamo tradito la resistenza curda

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Era il 19 luglio 2012. Le Unità di protezione del popolo curdo (Ypg) entravano a Kobane dopo mesi di proteste contro il regime siriano. In pochi giorni, il braccio armato del Partito curdo dell’Unione Democratica (Pyd) avrebbe raggiunto anche Afrin a ovest e Amuda a est, scacciando le forze di Assad da tutta la punta nord-orientale della Siria. Era l’inizio della Rivoluzione del Rojava e di un incubo per la Turchia. Il sogno di una terra autonoma per i curdi in Siria (dopo quanto accaduto quasi un decennio prima in Iraq) diventava realtà. Da allora, quasi tutto il nord-est del Paese è stato governato da un’amministrazione nata prima contro il regime di Damasco, poi appoggiata da Usa ed Europa contro l’Isis e quindi obbligata ad accordarsi con la Russia e con le forze di Assad per non essere travolta dalla Turchia. È una storia di resistenza e tradimenti, con un solo scopo: sopravvivere.

50 anni di lotte
Il conflitto combattuto dai curdi siriani si intreccia con la guerra civile scoppiata contro il regime baathista ma ha radici ben più profonde. All’indomani dell’uscita di Damasco dalla Repubblica Araba Unita, il censimento del 1962 privò 300mila curdi siriani della cittadinanza. Poi negli anni ‘70, con l’arrivo al potere di Hafez al-Assad – padre di Bashar – cominciò l’insediamento di comunità arabe nelle zone a maggioranza curda. Lo scopo era creare una “cintura araba” per scoraggiare il separatismo interno, da sempre osteggiato come in Iran, Turchia e Iraq. Proprio oltre il confine iracheno però, dopo l’invasione degli Usa, nel 2003 si insediò un’autorità autonoma curda riconosciuta a Baghdad e all’estero. Nello stesso anno, in Siria fu fondato il Pyd, da cui nasceranno prima le Ypg nel 2011 e poi le Unità di difesa delle donne (Ypj) nel 2013. Quest’ultimo fu un anno decisivo per la Siria: l’intervento occidentale dapprima paventato negli Usa fu poi smentito e il regime riprese terreno contro i ribelli, tra le cui fila cominciarono a prendere il sopravvento i fondamentalisti.

L’anno successivo, le aree sotto controllo delle milizie curde (Afrin, Kobane e Qamishli) si dichiararono autonome, secondo un sistema di tre cantoni. Intanto, a settembre scoppiò la guerra con il sedicente Stato Islamico, che controllava vaste zone tra Iraq e Siria e assediava Kobane. Fu l’attacco che guadagnò ai curdi siriani visibilità globale e l’appoggio della coalizione occidentale guidata dagli Usa, che costrinsero persino la Turchia a concedere ai Peshmerga iracheni un passaggio sicuro verso la città per contribuire a sconfiggere l’Isis. Allora i curdi divennero la milizia dell’Occidente contro i fondamentalisti e allargarono il proprio controllo sulla Siria settentrionale. Così, mentre la Russia interveniva a sostegno di Assad, a fine 2015 furono fondate le Forze Democratiche Siriane (Sdf), armate da Europa e Stati Uniti, e l’anno seguente – dopo la liberazione dall’Isis della città a maggioranza araba di Manbij – nacque ufficialmente la “Federazione Democratica della Siria Nord-Orientale”, con una nuova costituzione ispirata al confederalismo democratico e un nome più “inclusivo”.

La caccia del Sultano

Ormai quasi tutto il confine turco-siriano era controllato dalle milizie curde, un fatto inaccettabile per la Turchia di Recep Tayyip Erdogan. Proprio nel 2016, Ankara lanciò la sua prima operazione militare in Siria, denominata “Scudo dell’Eufrate” e conclusa nel marzo 2017. Si scagliò contro i fondamentalisti per controllare il valico di Jarablus e dividere le posizioni curde tra Manbij e Afrin. Il primo colpo diretto di Erdogan ai curdi siriani arriverà però solo due anni più tardi. Dopo che nel 2017, le Sdf liberarono Raqqa dall’Isis, nel gennaio successivo la Turchia avviò l’operazione “Ramoscello d’ulivo” contro Afrin, conquistata nel marzo 2018, provocando oltre 300mila sfollati e più di 4.000 perdite tra le milizie curde. La città fu lasciata al controllo di gruppi armati filo-turchi che imposero la sharia e sostituirono l’amministrazione curda. Intanto, le campagne delle Sdf avevano allargato a tal punto il territorio controllato dai curdi che a fine 2018 nacque l’Amministrazione autonoma della Siria settentrionale e orientale, che l’anno successivo sconfiggerà il sedicente Califfato a Deir ez-Zor, arrivando a governare oltre un quarto del Paese e più di due milioni di persone. Un potere intollerabile per Ankara che nell’ottobre 2019, dopo il ritiro deciso dal presidente degli Usa Donald Trump, scatenò l’operazione “Sorgente di pace” contro il nord-est della Siria, provocando oltre 200mila sfollati e centinaia di morti tra i civili, con bombardamenti indiscriminati di artiglieria, costati la vita persino a dei giornalisti.

Il tradimento di Europa e Stati Uniti e l’implacabile caccia di Ankara alle milizie curde, obbligò le Sdf a rivolgersi al regime di Damasco e alla Russia, concedendo alle forze filo-Assad di rientrare nel territorio da cui erano state scacciate anni prima. Alla fine, fu un accordo mediato a Sochi tra Putin ed Erdogan a stabilire una nuova zona demilitarizzata in Siria nord-orientale e a fermare l’avanzata di Ankara. Mosca si guadagnò persino una base per elicotteri a Qamishli, dove i suoi militari non si erano mai spinti. Oggi, con la guerra in Ucraina, una nuova mediazione è attesa tra il Cremlino e il Sultano, desideroso di dare un’altra spallata al Rojava dopo aver incassato il sostegno della Nato al vertice di Madrid ed essersi fatto corteggiare da Draghi ad Ankara. Ancora una volta sulla pelle dei curdi.

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