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    Allarmismo da Coronavirus? Lasciate perdere i giornali, la colpa è delle istituzioni

    Illustrazione di Emanuele Fucecchi

    In difesa della stampa italiana. Se dal 21 febbraio ad oggi, in meno di due settimane, siamo entrati nel loop profondo di una narrativa che ci ha portati a essere uno fra i cinque paesi più temuti al mondo per numero di contagi e di vittime da Coronavirus, non è solo perché siamo un popolo emotivo i cui sentimenti la stampa cavalca e perché facciamo tamponi come non ci fosse un domani da quando è morto Adriano Trevisan, ma anche e soprattutto per le risposte schizofreniche che le istituzioni hanno fornito ai cittadini e per una comunicazione poco coerente nel dialogo con la stampa.

    Di Giulio Gambino
    Pubblicato il 5 Mar. 2020 alle 12:19 Aggiornato il 9 Mar. 2020 alle 14:15

    “Dovreste vergognarvi. Sciacalli. Mistificatori“. La stampa è sotto accusa. I giornali vivono un periodo di profonda crisi a causa anche della scarsa credibilità di cui godono. E questa emergenza Coronavirus ne è forse la prova più lampante. Giornalisti impallinati perché fanno il loro mestiere. Tacciati di essere allarmisti perché riportano notizie, certo talvolta inquietanti ma pur sempre utili ai lettori, o perché denunciano condizioni di degrado in cui versa la sanità nazionale.

    Mi ha colpito profondamente la mole di insulti subiti dal settimanale l’Espresso per la scelta della copertina uscita in edicola domenica scorsa, ‘Sanità distrutta Nazione infetta’, in riferimento a una storica copertina degli anni Cinquanta. Il messaggio di accusa era più o meno questo, parafrasando: ‘Seminate panico in un momento delicato in cui bisogna calmare le persone anziché allarmare i cittadini. State affossando il paese. Vergognatevi. Sciacallaggio. Sensazionalismo. Avete fatto uno scivolone di comunicazione. Contribuite alla paura e allo sfascio del paese. Ho bisogno di speranze’. La presunta colpa? Sentite qui: aver denunciato la crisi del servizio sanitario pubblico dopo anni di tagli e la carenza di dottori, medici e infermieri, spesso precari, in concomitanza – guarda un po’ – con la emergenza Coronavirus.

    Va detto che il tutto avveniva perlopiù sui social come Instagram che, naturalmente, non è lo specchio del paese ma fornisce ugualmente lo scenario di una società che non vede più nel giornalismo un valido alleato ma anzi un nemico a cui contrapporsi. E una società che non si nutre del potere della stampa, dandola per vinta e scontata già in partenza, è una società più povera.

    La ‘caccia al giornale allarmista’ si è verificata in questi giorni anche nei confronti di altri quotidiani, cartacei o web, compreso il nostro, fortemente criticati perché – appunto – ritenuti allarmisti e propagatori di un clima da brividi. Curioso. Sta di fatto che alla notizia del primo morto in Italia, e poi del secondo, del terzo, fino ad arrivare al centesimo, non è stata risparmiata una feroce critica verso chi faceva solo il suo mestiere, di informare il più possibile correttamente i lettori. E da lì le accuse, verso tutti, indistintamente, per le quali se muore una persona è necessario specificare da subito in un titolo di pochi caratteri anche l’età, se fosse o meno già ammalato, e altro ancora.

    E in ogni caso, bisogna parlarne poco; il meno possibile. Della serie: meno ne parliamo, meno ci riguarda, meno il virus arriva anche qui. Non tiriamocela da soli. Anzi, “non affossiamo” il paese con questa stampa allarmista. Certo, come no. Quasi si volesse scongiurare, persino censurare, a tutti i costi l’effetto domino con cui era praticamente inevitabile che il virus si diffondesse e arrivasse anche da noi. E da lì il solito refrain: ‘Pur di vendere due copie in più vendereste anche vostra madre’. Carino.

    A ben vedere, in questa emergenza da virus la stampa italiana ha risposto più che degnamente: tutta insieme, senza differenza di sorta. Sono stati prodotti reportage, interviste, analisi e commenti informativi utili al servizio del lettore. A me non allarma francamente il numero di contagi di per sé, ma molto di più il fatto – come denunciato da noi di TPI – che la Regione Veneto abbia temporeggiato per 20 giorni l’inizio dei tamponi anche sui pazienti asintomatici. Quando avrebbe forse potuto mettere un freno alla diffusione del virus nella regione che per paradosso è anche quella che spende di più per la sanità nel nostro paese e che oggi è uno dei principali focolai attivi.

    Il morbo del virus ha comprensibilmente paralizzato il paese intero. Anche la politica è in ferie, e i suoi rappresentanti in quarantena. Le pagine politiche dei quotidiani sono state ‘soppresse’ dal virus. Pure Salvini è quasi scomparso dalla scena, e ce ne vuole. Fanno sorridere quelli che scrivono: se oggi prestassimo tanta attenzione al riscaldamento globale quanta ne prestiamo al Coronavirus riusciremmo a trovare una soluzione di lungo termine a un problema assai maggiore. Vero, certo. Ma è una banalità tale da far sembrare quel motto quasi una frase fatta, e non capendo che è perfettamente normale che un virus di questa portata, nell’era dello sviluppo accelerato, in cui l’uomo è arrivato a ritenersi invincibile sulla natura, catalizzi il dibattito pubblico e annienti la razionalità che oggi molti ricercano negli occhi degli altri.

    Sì, questo Coronavirus fa paura. Lo temiamo perché non conosciamo come è fatto, dove si annida e in che modo possiamo debellarlo. Ma la stampa in questo non ha responsabilità. Se dal 21 febbraio ad oggi, in meno di due settimane, siamo entrati nel loop profondo di una crisi che ci ha portati a essere uno fra i cinque paesi più temuti al mondo per numero di contagi e di vittime da Coronavirus, non è solo perché siamo un popolo emotivo i cui sentimenti la stampa cavalca e perché facciamo tamponi come non ci fosse un domani da quando è morto Adriano Trevisan, ma anche e soprattutto per le risposte schizofreniche che le istituzioni hanno fornito ai cittadini e per una comunicazione poco coerente che hanno trasmesso alla stampa.

    Dalle istituzioni è stato dichiarato quasi tutto e il contrario di tutto, arrivando – ieri 4 marzo -, forse a questo punto con un po’ di ritardo, a chiudere le scuole e le università di tutto il paese per almeno 11 giorni (fino al 15 del mese). Da allarmismo istituzionale – quello sì che lo è stato – a dietrofront con il freno a mano tirato. Governo, istituzioni e regioni: il nord Italia ricco si è ritrovato improvvisamente spiazzato e debole, incapace di tranquillizzare i propri cittadini. (E le istituzioni, quelle sì, non i giornali in primis, avrebbero dovuto farlo). Dalla mascherina di Fontana ai topi di Zaia, chi ha generato instabilità e instillato paura non è stata certo la stampa. Quello scontro fratricida tra governo e regioni è stato deleterio per determinare la gravità della situazione, causa del caos che si è auto-generato. Altro che giornalismo.

    Del resto, riflettete su questo: se i nostri governanti ci dicono ‘non andate tassativamente al pronto soccorso’ quale pensate possa essere la reazione della popolazione? Quella di salutarsi da lontano ma senza baciarci e abbracciarci, forse. E poi, dulcis in fundo, lo scontro tra i virologi: ovvero le persone che avrebbero avuto diritto di parola perché portatori di un pensiero informato e che invece hanno generato ancora più incertezza, dichiarando l’una il contrario dell’altro. Rischiando di trasformare un ambiente incolume alla tifoseria da stadio di cui l’Italia è già piena in una campagna elettorale politica con un biglietto assicurato per le prossime elezioni.

    I giornali devono fare i giornali e i giornalisti devono fare i giornalisti, con coraggio, per raccontare la verità e condizioni che le istituzioni hanno spesso quasi del tutto omesso (come in questa emergenza ad esempio). Perciò facciamoci coraggio, accettiamo la paura per quel che è, risparmiamoci questa avversione nei confronti dei media. Quasi avessero una colpa di raccontare ciò che deve essere raccontato, quasi fossero dall’altra parte rispetto ai cittadini, quasi avessero interessi particolari nascosti su cui lucrare, quasi godessero nel terrorizzare la gente. Se una storia di denuncia è cruda e va raccontata, va raccontata. Se bisogna entrare nella red zone, si entra nella red zone. Punto.

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