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A Battiato, che mi ha insegnato la tenerezza senza vergogna e la stupidità sfacciata

Immagine di copertina
Credit: Ansa foto

Bandiera Bianca l’ascoltavo a 6 anni dalla musicassetta quando la mia famiglia di buoni terroni lasciava il Nord per tornare a casa con la Fiat Croma. Io mi sedevo sempre sul bracciolo centrale e papà sbraitava furente perché diceva che così lo rompevo (cosa poi effettivamente accaduta). Ecco, Bandiera Bianca allora mi pareva una filastrocca che accompagnava quel rituale. Le note che introducevano un ritorno: il diradarsi della nebbia, l’autostrada, il paesaggio che cambiava e sapeva di casa. Era l’inizio degli anni Novanta, papà aveva ancora tanti capelli. Bandiera Bianca l’ascoltavo a 18 anni, percependo in quel testo la ribellione verso un modo di fare che cominciava a trovare una sua voce, anche se non definita. L’ascoltavo a 24 anni, quando i vagiti del mondo adulto suonavano estremamente stonati rispetto alle mie speranze. Oggi la ascolto rivedendo e imparando che ogni singola frase contiene vaticini ancora da scoprire, indissolubilmente legati alla mia persona.

“Mi piaceva tutto della mia vita mortale, anche l’odore che davano gli asparagi all’urina”. Solo Battiato poteva fare questo: prendere una cosa stupida, metterla in musica, portarla dentro l’orecchio e renderla speciale. Speciale perché vera e semplice al tempo stesso. Era un letterato, un uomo di una cultura immensa ma che non ha mai smesso di giocare con le parole, con le piccole verità della vita. Così mi ha conquistato sempre. C’era sempre un po’ di sorriso in ogni cosa, anche nella più seria.

Nel 1992 Battiato tenne un concerto a Baghdad, io ero piccola ma ho vissuto quello spettacolo teatrale attraverso i video. Da poco erano cessate le ostilità della prima guerra del Golfo, iniziata nell’agosto del 1990 e terminata sei mesi più tardi. All’Iraq furono imposte durissime sanzioni economiche con conseguenze disastrose sui civili inermi cui mancavano generi di prima necessità e cure mediche. Il concerto, realizzato a sostegno dell’Unicef, fu trasmesso in televisione per raccogliere fondi per l’infanzia irachena. Battiato non aveva scopi politici, lo dichiarò esplicitamente: “Lo scopo della mia visita in Iraq era umanitario, perché non trovo giusto che un popolo debba soffrire per colpe non sue; ma è anche vero che credo sia giusto dare a tutti una possibilità di redenzione, agli assassini di diventare santi”.

Aprì il concerto cantando in arabo “L’ombra della luce”, una canzone che è preghiera: “Ricordami come sono infelice / Lontano dalle tue leggi / Come non sprecare il tempo che mi rimane / E non abbandonarmi mai / Non mi abbandonare mai”. La cantò in arabo perché gli iracheni capissero le sue intenzioni. La cantò in arabo e mi insegnò quanto potere c’è nella comunanza di suoni, nella fratellanza di parole.

In chiusura del concerto, Battiato eseguì in arabo Fog El Nakhal, un brano molto popolare in cui si canta un amore impossibile da raggiungere. Fu estremamente emozionante perché fu il momento in cui si percepì l’unione dei popoli.

“La musica prescinde da tutto, riunisce sul serio la gente, la musica è un’arte sublime, un importante momento di aggregazione. Di questo viaggio ricordo la commozione dei musicisti iracheni, che non hanno più nulla, e che hanno ricevuto spartiti, ance, corde per i violini. Ricordo quel pianoforte che abbiamo dovuto accordare a 440 invece che a 442 per paura che saltasse tutto. Non ci sono libri, non c’ è possibilità di continuare a studiare, e se la cultura, le notizie non arrivano è difficile che un regime si possa contrastare”, raccontò poi.

Non sono un “essere speciale”, come migliaia di altre persone ho sempre una canzone di Battiato che segna indissolubilmente alcuni dei momenti più importanti o felici della mia vita. Però Battiato mi ha insegnato l’opportunità di essere fragile. Di lasciarmi andare alla tenerezza senza vergogna. E penso questa sia una delle cose che impunemente me lo fanno sentire più mio che di altri. Impropriamente è ovvio.

“Più diventa tutto inutile e più credi che sia vero”. Battiato aveva reso ogni canzone una caccia al tesoro. Non era un banale gioco, era un percorso di conoscenza. In ogni suo pezzo c’è sempre un riferimento culturale, un aneddoto, una storia fantastica, una leggenda, un dramma latino da andare a cercare.

Dovevi studiare per stare con Battiato. Dovevi studiare e ridere. E parlare di lui adesso è camminare sulle uova. Critici musicali, storici illuminati o letterati d’alto profilo sono certamente più deputati a farlo. O forse no.

“E il mio maestro m’insegnò come è difficile trovare l’alba dentro all’imbrunire”. E questo maestro mi ha insegnato che si può essere di tutti. Perché la musica è di tutti. Allora posso parlarne anche io nel modesto ricordo di una ragazza nata negli anni Ottanta. Che ha sentito Battiato su un terrazzo di Roma a Pasqua del 2021 cantando con un’amica per sconfiggere la paura del domani, la solitudine e la lontananza.

Che “se ti senti male rivolgiti al Signore. Credimi siamo niente, dei miseri ruscelli senza fonte”. Perché puoi cantare Battiato pure nella corsia di un ospedale senza permettere al vuoto di scavarti dentro.

“Che cosa resterà di me, del transito terrestre? Di tutte le impressioni che ho avuto in questa vita?”. Caro Battiato la risposta che tutti danno in questo triste giorno di maggio la prendo in prestito da una tua canzone. Ti vengo a cercare perché sto bene con te, perché ho bisogno della tua presenza” per trovare quella pace che tu avevi trovato.

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