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Assange e l’omertà dei difensori delle verità comode (di Alessandro Di Battista)

Immagine di copertina
Illustrazione di Emanuele Fucecchi

Il 5 febbraio del 2003 l’allora Segretario di Stato degli Stati Uniti d’America Colin Powell mostrò al Consiglio di Sicurezza dell’ONU una fialetta contenente polvere bianca. Fu un modo, dal punto di vista comunicativo piuttosto efficace, per far credere al mondo intero che Saddam Hussein possedesse un arsenale di armi di distruzione di massa capace di eliminare milioni di persone. Era una fake news.

S&D

Colin Powell, le cui menzogne sono costate la vita di decine, forse centinaia di migliaia di persone, è un libero cittadino. Assange vive in “lockdown” dalla mattina del 19 giugno del 2012, quando uscì di casa, prese la metropolitana di Londra, probabilmente uscì a Knightsbridge Station a pochi passi da Hyde Park e raggiunse, a piedi, l’Ambasciata dell’Ecuador che gli concesse, per quasi sette anni, lo status di rifugiato politico. Colin Powell rilascia interviste, fa l’opinionista in TV. Assange viene trattato da appestato da tanti, troppi giornalisti che, per convenienza o viltà, si sono via via trasformati in paladini delle verità comode.

Vivere tra quattro mura non è facile, ce ne siamo resi conto anche noi negli ultimi mesi. Assange è costretto a farlo da 3123 giorni perché portatore sano del virus del giornalismo libero.

Assange non ha espresso opinioni. Ha messo a nudo il potere lasciando che si palesasse, senza filtri, attraverso documenti segreti che ha avuto il coraggio di pubblicare.

Quando Colin Powell, con quel discorso, diede il la alla seconda guerra del Golfo, Saddam Hussein non aveva alcun arsenale batteriologico. È vero, Saddam Hussein le armi chimiche le aveva avute ma le aveva già usate per fermare la controffensiva iraniana sul finire della guerra Iraq-Iran e per trucidare la popolazione curda di Halabja, una cittadina del Kurdistan iracheno a pochi chilometri dal confine persiano. Quelle armi, tra l’altro, l’Iraq le aveva prodotte grazie alle attrezzature che l’occidente – probabilmente Francia, Germania e Stati Uniti – gli aveva venduto. D’altro canto negli anni ’80 l’Iraq non faceva ancora parte dell’asse del male.

Nel 1983 Donald Rumsfeld, Segretario della difesa USA quando Bush figlio invase l’Iraq, incontrò Saddam Hussein a Baghdad e con lui ebbe un colloquio cordiale e fruttuoso. Saddam Hussein era considerato una risorsa nonostante avesse già dimostrato la sua spregiudicatezza. Le grandi potenze (URSS inclusa) erano molto più spaventate dall’ascesa dell’Iran dove, nel 1979, la rivoluzione islamica aveva spazzato via lo Scià di Persia e preso il controllo della quarta (per qualcuno terza) riserva petrolifera mondiale.

Saddam Hussein, in chiave anti-iraniana, venne armato da mezza Europa, dalle monarchie del Golfo, dagli Stati Uniti e persino dall’Unione Sovietica che temeva il sostegno iraniano ai mujaheddin sciiti che in Afghanistan combattevano per respingere l’invasione sovietica. Era dai tempi del sostegno a Nasser durante la crisi di Suez che USA e URSS non si trovavano dalla stessa parte. In verità gli Stati Uniti mantenevano i piedi in due staffe. Vendevano sì armi a Saddam Hussein ma, contemporaneamente fornivano mezzi e munizioni agli iraniani con i cui proventi finanziarono, segretamente, i Contras, i mercenari addestrati dalla CIA per rovesciare Daniel Ortega, il Presidente del Nicaragua democraticamente eletto.

Saddam Hussein smise di essere un alleato dell’occidente quando invase il Kuwait dimostrando al mondo intero di essere incontrollabile. E se incontrollabile era lui incontrollabili erano anche i pozzi dell’Iraq, quinto paese al mondo per le riserve di petrolio.

Il 17 gennaio del 1991 venne lanciata l’operazione Tempesta del Deserto che in poche settimane costrinse al ritiro dal Kuwait le truppe irachene. Ma Saddam Hussein restò al suo posto. Washington temeva che la sua destituzione avrebbe portato ad una destabilizzazione tale del Paese della quale avrebbe approfittato l’Iran. Quel che è avvenuto, del resto, dopo la seconda Guerra del Golfo.

Il resto è storia più recente. Saddam Hussein è caduto ed è scoppiata la guerra civile. Nuovi cimiteri sono stati aperti e contemporaneamente molti ospedali venivano chiusi. Da allora decine di migliaia di iracheni, ogni anno, oltrepassano l’Arvand, il fiume che nasce dalla confluenza tra Tigri ed Eufrate, ed entrano in Persia per andare a curare negli ospedali di Qom, Shiraz o Esfahan.

Questo breve resoconto storico è utile per comprendere quanto siano stati sporchi questi venticinque anni di storia mediorientale. Quanto il petrolio, lo stramaledettissimo petrolio, abbia segnato la vita, e soprattutto la morte di milioni di persone in quell’angolo di mondo.

Scrive Eric Laurent in “La verità nascosta sul petrolio”: “Il mondo del petrolio è dello stesso colore del liquido tanto ricercato: nero, come le tendenze più oscure della natura umana. Suscita bramosie, accende passioni, provoca tradimenti e conflitti omicidi, porta alle manipolazioni più scandalose”. Quante guerre sono nate per via del petrolio? Sempre meno di quelle prodotte dalle menzogne.

Nel 2011, a Trafalgar Square, Assange pronunciò queste parole: “Se la guerra può essere innescata dalle bugie, la pace può avere inizio con la verità”. Come dargli torto. Se WikiLeaks fosse nata negli anni ’70 il mondo, oggi, sarebbe migliore. Indicibili menzogne sarebbero state svelate prima dei danni da loro provocati. La verità mostrata nella sua interezza avrebbe fatto da deterrente futuro e parecchi innocenti in più respirerebbero ancora.

Nel 2010 WikiLeaks pubblicò Collateral Murder, un video che mostra l’assassinio di diciotto civili iracheni disarmati (tra i quali due reporter della Reuters) abbattuti da un elicottero Apache dell’esercito USA. In quel video i soldati americani sparano come se si trovassero in una sala giochi di Las Vegas. Quel video venne consegnato ad Assange da Chelsea Manning, un ex-militare USA che aveva svolto il ruolo di analista di intelligence a Baghdad.

Nelle stesse settimane Wikileaks pubblicava migliaia di documenti top-secret che rivelavano omicidi, torture, violenze di ogni genere perpetrate dai soldati USA in Iraq e Afghanistan, teatro di un’altra guerra infame fatta digerire alla pubblica opinione mondiale grazie alla consueta iniezione di fake-news.

Ma nel mondo del sottosopra il criminale rischia di diventarlo Assange. Il rischio esiste ancora. L’altro ieri Vanessa Baraitsen, giudice inglese, ha negato l’estradizione di Assange negli Stati Uniti. Una buona notizia ma per chi difende la libertà di stampa e soprattutto il diritto sacrosanto dei Popoli di conoscere le verità della storia, si tratta di una vittoria a metà. Assange, per adesso, non verrà estradato per motivi di salute ma nessun giudice ha sancito il diritto di rivelare informazioni riservate.

Ieri, all’indomani della sentenza di Londra, ho dato un rapido sguardo alla rassegna stampa nostrana e non mi pare che La Repubblica ed il Corriere della Sera, i due quotidiani più venduti in Italia, abbiano messo in prima pagina la notizia della mancata estradizione ad Assange. L’hanno fatto La Stampa, Il Fatto ed Il Manifesto. Che peccato. Eppure un tempo La Repubblica aveva un’altra linea. Proprio il sito di La Repubblica, il 30 luglio del 2013, pubblicò Collateral murder, il video che Manning diede a Wikileaks e che fece tremare le vene e i polsi a Washington. Erano altri tempi forse. Eppure, soprattutto oggi, il coraggio è la qualità che i lettori si aspettano maggiormente da chi fa informazione. Non sempre la verità rende liberi. A volte la verità ti scaraventa in prigione come è successo ad Assange. Ma la verità ti fa guardare alla specchio, anche se in una cella di due metri per tre.

Difficile trovare eroi moderni che abbiano contribuito con tale coraggio alla libertà di opinione globale. Ci vogliono far credere che il problema della modernità siano le fake-news. Partiti politici senza uno straccio di idee mettono la lotta alle bufale al primo posto dei loro programmi elettorali. L’Unione Europea finanzia campagne su campagne contro le balle di internet. I giornali più conformisti del pianeta non avendo più il coraggio di dare notizie scomode sguinzagliano le loro migliori energie nel tentativo di smascherare le teorie dei terrapiattisti. Forti con le balle dei deboli e deboli con le menzogne del sistema. Ecco da dove viene l’emarginazione di Assange. Lui, Giornalista con la G maiuscola ha fatto l’esatto contrario. “Non c’è nulla che sia più ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali”, disse Don Milani. Vale anche per le balle, soprattutto perché alcune menzogne hanno lasciato strisce di sangue dietro di loro. E sono proprio quelle smascherate da un eroe come Assange.

Leggi anche: Wikileaks, tribunale di Londra blocca l’estradizione negli Usa di Julian Assange: “Rischia il suicidio”

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