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L’arroganza dei migliori che tornano a privatizzare i servizi pubblici in nome delle leggi del mercato

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“Una motivazione anticipata e qualificata (…) del mancato ricorso al mercato”: questa servirà ai Comuni per poter continuare in futuro a gestire in maniera pubblica i servizi, come l’acqua, i trasporti, le infrastrutture pubbliche.

S&D

In questa frase, contenuta nel sottaciuto art. 6 del DDL Concorrenza licenziato qualche giorno fa dal CDM e dal Primo Ministro Mario Draghi, si manifesta tutta l’arroganza del capitale nell’aggredire la cosa pubblica in nome delle leggi del mercato.

Molte testate giornalistiche tacciono questi passaggi del decreto concorrenza, concentrandosi sulla protesta dei tassisti o sulla mancata applicazione della direttiva Bolkestein per la gestione del demanio costiero (spiagge e lidi), eludendo in questo modo il punto più critico della legge: le privatizzazioni. Il punto è l’incentivo, o forse è meglio dire l’obbligo per i Comuni di mettere sul mercato la gestione dei servizi pubblici onde doverne giustificare la gestione pubblica, nel decreto definita “autoproduzione”, con monitoraggi costanti e frequenti controlli.

Il ricorso al mercato viene fatto in nome dei principi “di omogeneità, sviluppo e coesione sociale”. Passaggio quasi orwelliano, se consideriamo che oggi le grandi divisioni sociali e gli enormi squilibri tra fasce della popolazione ricche e povere, abbienti e insolventi sono il frutto dell’applicazione religiosa dei principi del libero mercato.

Il popolo italiano si è già espresso in maniera chiara su questo punto con il Referendum del 2011 che, superato il quorum del 50% degli aventi diritto, vietò con uno schiacciante 95% a favore, la gestione privata dei servizi economici di pubblica rilevanza.

Agli inizi degli anni 2000 i servizi pubblici locali erano a gestione pubblica, partecipata o privata. Poi ci fu una stretta a favore di una gestione privata dei servizi pubblici locali e ciò avrebbe riguardato anche il servizio idrico.

Nel Referendum del 12 e del 13 giugno 2011, 27 milioni di cittadini votarono per l’abrogazione delle norme che consentivano di affidare la gestione dei servizi pubblici locali a operatori economici privati.

Questo Referendum non è mai stato applicato, soprattutto relativamente alla gestione dell’acqua, ma è sempre stato un freno al ritorno delle privatizzazioni. Ci provarono ancora e il Governo intervenne con il D.L. n. 138/2011 che reintroduceva le possibilità di privatizzazioni, ma la Corte Costituzionale dichiarò illegittimo il D.L. per aver “aggirato” il risultato referendario.

Oggi ci risiamo da capo. La proposta di privatizzare i servizi arriva poi dopo 2 anni di pandemia e di mantra, ripetuti da ogni parte della politica, sull’importanza di mantenere pubblici i servizi primari, come per esempio la sanità – che non sarà toccata da questo decreto. Abbiamo letto fiumi di parole sui manifesti e palesi errori sulle privatizzazioni nella sanità sulla mancanza di attenzione al territorio da parte delle gestioni private, più tese alla speculazione che a perseguire il pubblico interesse.

Vogliamo poi parlare dei risultati della gestione privata di Autostrade, del caso Atlantia e della strage del Ponte Morandi? E ancora, ricordiamo la crisi di sistema del 2008, quando gli interessi privati di gestione bancaria furono salvati con decine di trillioni di $ pubblici? Le banche come MPS hanno usufruito di 20/30mld€ di aiuti dalle tasche dei contribuenti italiani…

Perchè oggi Draghi viene a imporre la gestione privata dei servizi pubblici dei Comuni?

I protagonisti assoluti che usufruiranno dei Fondi Pnrr saranno i Comuni e le Città Metropolitane: una mole enorme di fondi (circa 200mld€) finiranno nelle facoltà dei Sindaci. I Comuni e in genere gli enti locali spendono la gran parte del bilancio in servizi alla cittadinanza, il potenziamento dei settori dei trasporti, rete idrica, infrastrutture e tutto quell’ampio spettro che nel DDL viene definito “autoproduzione” del servizio. I servizi oggi pubblici o partecipati subiranno un enorme crescita nei prossimi anni. Con l’OK al DDL concorrenza, alias privatizzazioni, sarà l’iniziativa privata a spendere i Fondi del Pnrr, e questo non è detto che significhi fare l’interesse pubblico.

In nome del libero mercato abbiamo assistito al massimo ribasso negli appalti, all’ultra-precarizzazione del lavoro, alla perdita di potere d’acquisto e di diritti. Buona parte del danno ambientale – dalle coltivazioni selvagge che deforestano l’Amazzonia, all’incontrollato consumo di carne che devasta con gli allevamenti intensivi le pianure di mezzo mondo, al consumo sfrenato di idrocarburi e di materie prime – è il frutto dell’applicazione indiscussa delle leggi del mercato.

Forse a Draghi sarebbe richiesta un po’ di coerenza tra le sue azioni, gli incontri con Greta Thunberg, le dichiarazioni fatte al G20 e le posizioni assunte con leggi come questa.

Ai tempi della Britannia (inizi degli anni ’90) quando si cominciò il processo di privatizzazione degli asset del Paese, poteva forse essere concepibile la decisione di affidare al mercato le grandi aziende italiane. Allora Draghi, direttore della Banca d’Italia, fu protagonista della spartizione dell’IRI e delle grandi industrie di stato – la SIP, l’ENI, l’ENEL – sul tavolo selle privatizzazioni. Quelli però erano altri tempi: era da poco caduto il muro a Berlino, si parlava di pensiero unico (quello capitalista) e di fine della storia. Oggi tutto ciò è anacronistico, i banchieri di Wall Street e della Fed, sostenitori della “deregulation” (dottrina che Draghi conosce bene) – ossia il principio che non solo il mercato si auto regolamenti, ma che la politica lavori per rimuovere gli ostacoli alla speculazione finanziaria – hanno portato il mondo al default. Il capitalismo e l’ortodossia del libero mercato hanno manifestato i propri limiti e nel frattempo altri modelli si prefigurano all’orizzonte.

Le frontiere dell’ambientalismo pretendono un cambio di paradigma, senza tentennamenti, la generazione FFF cresce per numero ed età anagrafica, non sono più bambini e lo si sente dai toni più accesi di questi giorni a Glasgow. La politica del futuro esige un controllo della speculazione privata e dei consumi, una maggiore presenza del pubblico a garanzia dei processi virtuosi di tutela ambientale e dei diritti sul lavoro, guarda all’economia circolare e alla condivisione di beni e servizi.

Quando si parla di servizi pubblici dovremmo auspicare una collaborazione e cooperazione, una sensibilizzazione dei cittadini e lo sviluppo del senso civico, altro che concorrenza. Fa sorridere il pensiero che questo sarebbe il governo delle grandi vedute, quello dei migliori. A guardar bene, queste sono scelte conservatrici e vecchie, così come gli interessi che le muovono.
E ora, cari PD e M5S, attendiamo emendamenti all’art. 6…

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