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Home » Opinioni

Gli annunci via social non bastano: il Parlamento va riaperto, subito

Immagine di copertina
Foto: l'Aula del Senato

La più drammatica crisi del Dopoguerra viene gestita con quotidiani annunci sui social, che ieri hanno indotto i giornali in un clamoroso errore e che soprattutto non tengono conto delle forme decisionali previste dal nostro ordinamento

In Democrazia, la forma è sostanza. Lungi dal voler essere inutilmente cavillosi, soprattutto in un momento come questo, la fretta non deve indurci a ignorare gli elementi fondamentali dell’agire pubblico e amministrativo.

Si sta molto discutendo della modalità con la quale il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha annunciato la più grande limitazione della libertà personale del Dopoguerra: a tarda ora, attraverso Facebook e soprattutto senza aver ancora firmato e depositato l’atto di cui stava parlando. La sua pubblicazione, anzi, è slittata in avanti, anche perché – si mormora – ci sarebbe da limare qualche dettaglio che a Confindustria non piace.

Usa la sua pagina Facebook personale anche il Sindaco di Milano Beppe Sala, nei suoi quotidiani aggiornamenti alla cittadinanza. Non a tutti piace questa modalità, ma almeno c’è coerenza con i suoi atti amministrativi: o si tratta di appelli che non necessitano di carte bollate o, quando esse vanno prodotte, c’è un rimando chiaro alle tempistiche di firma e attuazione. “Oggi pomeriggio firmerò una ordinanza per chiudere i parchi recintati da domani mattina”, ha detto lo scorso 13 marzo. E così ha fatto.

Nell’era della comunicazione e della propaganda online, non è infrequente fare confusione tra annunci e atti amministrativi concreti. Ieri sera ne abbiamo avuto un esempio clamoroso: praticamente tutti i giornali, sia online che cartacei, hanno scritto dell’ordinanza del Presidente della Lombardia Attilio Fontana annunciando che essa “chiudeva tutto” e inoltre bloccava lo sport all’aria aperta.

Il tema, lo ricorderete, era stato al centro di lunghi dibattiti tra chi sosteneva il diritto dei runner di fare la loro corsetta in solitudine e chi invece richiamava alla necessità di rimanere in casa il più possibile. Io sono della seconda “fazione”, ma ognuno ha diritto alla sua opinione, soprattutto quando le regole non stabiliscono un vincolo chiaro.

Per questo mi era sembrata molto deludente l’ordinanza del Ministro della Salute Roberto Speranza, che ha trattato il maniera un po’ pilatesca: “Non è consentito svolgere attività ludica o ricreativa all’aperto; resta consentito svolgere individualmente attività motoria in prossimità della propria abitazione, purché comunque nel rispetto della distanza di almeno un metro da ogni altra persona”. L’indefinitezza di quel “in prossimità della propria abitazione” lasciava spazio a interpretazioni che, nel dramma che stiamo vivendo, non possiamo certo permetterci.

Quindi speravo sinceramente che la tanto annunciata “stretta” di Fontana ponesse rimedio sul punto, almeno qui nella piagata Lombardia. Le prime indiscrezioni mi avevano fatto ben sperare, ma leggere il provvedimento è stato una doccia fredda. Il suo art. 17 infatti recita testualmente: “Non è consentito svolgere attività ludica o ricreativa all’aperto. Sono altresì vietati lo sport e le attività motorie svolte all’aperto, anche singolarmente, se non nei pressi delle proprie abitazioni”. In pratica, tutto assolutamente identico alla già criticata ordinanza di Speranza.

E allora come mai tanti giornalisti hanno scritto il contrario? Semplice, perché l’annuncio con il quale Regione Lombardia ha presentato i punti salienti del provvedimento diceva solo: “Divieto di praticare sport e attività motorie svolte all’aperto, anche singolarmente”.

É lapalissiano che quando si deve sintetizzare qualcosa va tolto, ma in questo caso specifico l’omissione è stata sostanziale. Allo stesso modo, comprendo la fatica dei colleghi che, sottoposti a una raffica quotidiana di provvedimenti e controprovvedimenti da parte dei vari livelli amministrativi, si sono fidati della prima comunicazione da parte di Palazzo Lombardia. Tuttavia, avendo l’abitudine di leggere i provvedimenti prima di scriverne, mi è stato possibile evidenziare il tema in maniera corretta sia su TPI che via social.

La questione delle bozze dei provvedimenti che inevitabilmente girano nel nostro ambiente prima che siano ufficiali aveva già creato forti polemiche lo scorso 8 marzo. Non era la prima volta e non credo che sarà l’ultima, ma il problema si pone in maniera seria quando, specialmente in una situazione così drammatica, non si coglie la necessità democratica di rispettare i ruoli istituzionali in vigore.

Entriamo nel merito. Nei giorni scorsi, ho invocato per ben due volte l’impiego dell’esercito a tutela della salute pubblica: prima sollecitando una riflessione sul tema e poi sottolineando la necessità che a prendere questa decisione non fosse il solo Governo, ma il Parlamento nella sua interezza, in quanto rappresentante della sovranità popolare. Una decisione così importante, con ovvi elementi di rischio, non può essere presa fuori dal suo naturale ambito istituzionale.

Ma ad oggi le Camere sono ancora impantanate. I rispettivi presidenti Roberto Fico e Elisabetta Casellati continuano a ripetere che non c’è alcuna “restrizione delle prerogative parlamentari”, però i nostri Onorevoli continuano a non andare in Aula: scartata la possibilità del voto online, non si trova una soluzione per consentire la riunione di 315 senatori e 630 deputati garantendo almeno un metro di distanza tra uno e l’altro.

Ora, mi auguro che almeno su questo diano una rapida prova di capacità di problem-solving, perché il Paese ha bisogno che si occupino efficacemente di emergenze ben più gravi: quella sanitaria e quella economico/sociale che seguirà a ruota. Il ritardo è clamoroso e va recuperato.

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