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Quegli animali imprigionati nelle fabbriche della morte

Immagine di copertina
Credit: LAV

"Mutilazioni, abusi, selezione genetica. E scarti lasciati morire da soli: dietro gli allevamenti si nasconde un’estrema sofferenza". L'intervento di Lorenza Bianchi, responsabile Area Transizione Alimentare della Lav (Lega Anti Vivisezione)

Da decenni le inchieste negli allevamenti mostrano le storture di un sistema che si basa sulla violenza sistematizzata e normalizzata. Con Food for Profit, il docu-film che da settimane ha raggiunto le prime posizioni tra le pellicole più viste in Italia, il passo è stato più lungo e siamo arrivati a parlare anche di interessi politici che influenzano le decisioni sull’agricoltura e sui fondi destinati ad essa in Europa. 

Partiamo dal termine agricoltura, ovvero «la coltivazione dei campi»: il termine viene riferito anche alle attività zootecniche, eppure la stragrande maggioranza degli animali allevati non calpesta mai la terra. 

In Italia sono oltre 630 milioni gli animali terrestri uccisi ogni anno, oltre dieci volte il numero degli abitanti del nostro Paese. Gli animali, esseri senzienti riconosciuti come tali dalla scienza, dalle leggi europee a partire dal Trattato di Lisbona, e la cui tutela è ora nella nostra Costituzione, in oltre il 90% dei casi vivono all’interno di complessi industriali. Capannoni di cemento chiusi, dove la luce naturale non arriva o entra a malapena, l’aria viene canalizzata tramite sistemi di ventilazione artificiali, le relazioni sociali tra gli animali sono completamente stravolte, il confinamento estremo in gabbia è ancora possibile, e l’ambiente in cui vivono gli animali è spoglio, non stimolante, triste.

Le modalità di allevamento e la selezione genetica esasperata funzionale alle stesse hanno conseguenze devastanti sugli animali: numeri altissimi di maiali zoppi perché estremamente pesanti e costretti a camminare sul cemento, galline con fratture da osteoporosi perché costrette a produrre un numero esorbitante di uova che sottrae tutto il calcio al loro organismo, aggressività intraspecifica e stress a causa delle condizioni di detenzione, mastiti delle vacche, selezionate per produrre quantità enormi di latte da destinare al consumo umano, problemi respiratori e di deambulazione dei polli usati per la carne, che a poche settimane di vita sono inviati al macello dopo aver sviluppato un petto che le loro zampe non riescono a reggere. E sono solo alcuni. 

Dietro la produzione zootecnica si nasconde, e nemmeno troppo bene, un’estrema sofferenza. Una violenza sistematizzata che parte dalla considerazione dell’animale come unità produttiva. Viene completamente tralasciata la dimensione di individuo, che è comune in tutto e per tutto a quella del cane di casa, o di ciascuno di noi. 

Le prassi zootecniche, anche quelle legali, sono nella maggior parte dei casi cruente: mutilazioni dolorose di parti del corpo degli animali (becco, coda, dita, corna, castrazione) senza impiego di anestesia o farmaci contro il dolore, separazione forzata tra madri e figli subito dopo la nascita, inseminazione artificiale (che potremmo chiamare abuso), manipolazione violenta, per esempio per caricare gli animali sui camion diretti al macello. 

Anche curarli, questi animali, è difficile. Le tante azioni legali portata avanti da Lav negli anni hanno permesso di salvare centinaia di animali provenienti da situazioni di abuso e sfruttamento nella filiera alimentare, ma assicurare loro le cure adeguate è difficile: la loro fisiologia è studiata solo a fini produttivi. Nell’industria sono considerati solo come carne da macello, programmati per vivere quanto basta per trarne un profitto, e quindi non adatti alla vita. Una dura realtà che tocchiamo con mano ogni giorno. 

Perché le condizioni sono queste? Perché in un’industria che ammassa decine di migliaia di animali all’interno di un capannone la possibilità di gestire e curare in modo adeguato ciascuno di loro è nulla. E non c’è nemmeno l’interesse, perché il punto non è preservare il singolo animale per ottenerne la maggiore resa, ma lavorare sulla quantità. Sono i grandi numeri e portare avanti l’industria, e questo implica che molti muoiono in allevamento o durante il trasporto, senza nemmeno arrivarci al macello. 

Le inchieste mostrano che è prassi in molti allevamenti “uccidere gli scarti” o lasciare gli animali malati morire da soli. Una pratica illegale per ridurre al massimo i costi di produzione e rispondere alla richiesta di prodotti a bassissimo prezzo, ma anche agli standard imposti di grandezza e peso dei “pezzi di carne” come in una catena di montaggio. 

Questo sistema non solo è crudele e violento con gli animali, ma spesso lo è anche con le persone coinvolte. Lavoratori in nero, non tutelati, sottoposti a ritmi massacranti, come caricare su un camion decine di migliaia di animali in una notte, che quindi sfogano la loro frustrazione e disperazione sugli ultimi, più ultimi di loro: gli animali. La discriminazione verso questi lavoratori è stata anche documentata da diversi studi realizzati per esempio sulle condizioni nei macelli durante la pandemia da Covid-19. 

Le implicazioni sulla collettività sono dunque importanti. Questo vale anche per l’utilizzo di risorse naturali e gli impatti sul clima e sull’ambiente. Nelle raccomandazioni dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc) figura anche la necessità di cambiare sistema di produzione e consumo di cibo verso scelte vegetali. 

La Fao stima che oltre il 70% delle emissioni climalteranti dell’agricoltura sono causate dalla zootecnia. Tra gli altri inquinanti ci sono i liquami, che causano la formazione di ammoniaca, precursore del particolato Pm2.5 estremamente dannoso per la salute umana, minacciata fortemente anche dal rischio pandemico da zoonosi e antimicrobico-resistenza. 

È interessante capire quindi come la produzione di cibo di origine animale sia impattante e al centro di alcuni dei cosiddetti fallimenti del mercato, in primis le esternalità. Le esternalità sono effetti inattesi o non voluti derivanti da un’attività antropica. Alle esternalità sono associati costi nascosti che non figurano nel prezzo del prodotto finale: nel caso del ciclo di produzione e consumo di carne in Italia, per esempio, tali esternalità hanno un costo stimato di 37 miliardi di euro all’anno che gravano su tutta la società. 

Ma anche l’asimmetria informativa regna sovrana poiché le caratteristiche del prodotto finale non sono direttamente verificabili dal consumatore se non attraverso etichette ancora ampiamente carenti e non trasparenti. 

La letteratura economica ha iniziato ad occuparsi ampiamente delle condizioni degli animali e offre altri spunti interessanti: parlando di tassazione sulla carne, non andrebbe tassato solo l’impatto in termini di emissioni (le famose esternalità), ma anche il fatto che gli animali hanno un valore intrinseco e privarli della vita deve essere tassato, ovvero penalizzato. 

Su una linea simile, chi sostiene che l’utilità delle persone è anche altruistica: in questo caso c’è un’esternalità di tipo morale, poiché il consumo di prodotti animali incide sull’utilità di chi invece si oppone a questo modello. 

Il tema della produzione e del consumo di cibo, in particolare legato all’utilizzo degli animali, è sempre più centrale nella ricerca accademica così come nel dibattito pubblico e politico e nella presa di coscienza da parte dei singoli. Tra le molte attività per superare questo modello di sfruttamento, Lav ha sostenuto tante volte comitati di cittadini locali contro aperture di nuovi allevamenti in diverse zone d’Italia, ma è importante ribadire che la logica del not in my backyard non è sufficiente. Opporsi all’allevamento dietro casa è legittimo, ma serve una presa di coscienza: se non è dietro casa tua ma tu continui a consumare prodotti animali senza battere ciglio, la fabbrica di animali da cui questi prodotti arrivano sarà dietro casa di qualcun altro.

LEGGI ANCHE: Insetti, alghe, carne artificiale: cambiare dieta può salvare l’ambiente

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