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Reggio Emilia 2, il più grande insediamento informale dell’Emilia Romagna, dove vivono i migranti dimenticati

Immagine di copertina
Una città dentro la città. Credit: Gabriele Gatti e Nicola Fornaciari

Reggio Emilia è lo specchio dell'indifferenza delle istituzioni verso gli insediamenti informali e le persone che essi ospitano, come la comunità di gambiani che da circa cinque anni abita nell'edificio abbandonato delle ex Officine Reggiane

“Voglio studiare musica e fare il dj, dice Simon facendo finta di essere alle prese con una consolle, ma è difficile perché mi servono i documenti e qui alle Reggiane la vita è molto dura”.

S&D

Chi sia passato anche solo una volta per la città dove nacque il Tricolore non può non aver notato le immense costruzioni che troneggiano sulle rotaie della stazione storica dei treni.

Quei capannoni che hanno costituito per anni il fiore all’occhiello e la fortuna industriale della regione sono chiamati dagli abitanti del capoluogo emiliano, semplicemente, ‘Reggiane’. Simon fa parte della comunità di gambiani che da circa cinque anni abita nell’edificio abbandonato dell’ex fabbrica.

A pochi passi dalla sede di Reggio Children, centro di ricerca sull’educazione famoso in tutto il mondo, si è da poco costruito una casa e ci invita ad entrare. Un grande murales sovrasta la porta dell’abitazione recitando: “Scusa ma è un mondo di scuse”.

Questo è l’accesso ad una fredda stanza una volta adibita a spogliatoio per gli operai. Un vecchio divano consunto e un materasso posizionato sul pavimento piastrellato sono l’unico arredo di cui dispone.

Simon in Gambia era uno studente, oggi, all’età di 24 anni, non è nessuno. Dice che la sua casa è temporanea, che tra poco chiamerà un avvocato che gli farà avere i documenti per poter rimanere in Italia, intanto però una sacca di vestiti e le pagine spiegazzate di un diario sono l’unica cosa che possiede.

In Gambia gli hanno detto di cercare lavoro in Europa per sostenere la famiglia, omettendo però che il viaggio gli sarebbe costato molti anni della sua adolescenza e che si sarebbe ritrovato in Libia a lavorare nei campi per pochi soldi.

Oggi, a Reggio Emilia, nell’insediamento informale più grande della regione, Simon combatte l’umidità, il freddo di un inverno appena trascorso e le malattie che cinque anni sulla strada lo hanno condannato a sopportare. Nel suo diario, scritto metà in inglese e metà in italiano, le parole fanno trasparire lo sconforto per una condizione che non capisce, e rabbia per il tempo che sta sprecando.

Non è un senzatetto, ha una casa all’interno delle Reggiane e appartiene a un gruppo di ragazzi che subiscono l’emarginazione di una società che li ha respinti e costretti a riorganizzarsi nell’attesa che qualcosa cambi.

Camminando tra gli immensi capannoni voci e risate provengono da una piccola struttura in mattoni costruita prima della chiusura dello stabilimento.

Qui incontriamo King che ci invita in quella che viene considerata la sala comune della comunità gambiana. Una volta scostata la tenda che copre l’ingresso l’ambiente è caldo e scuro, un forte odore di umidità e sudore sovrasta il profumo di cibo che proviene dall’esterno dove si sta preparando il pranzo.

La stanza è divisa in tre spazi dove sono incastrati altrettanti letti. Sulla destra, a fianco della porta, una stufetta elettrica è risultata fondamentale per combattere il freddo dell’inverno. Un soppalco di fortuna sorregge pile di valige e borsoni pieni di vestiti.

Come si confà alle regole della buona ospitalità ci offre un tè rovente in una tazza senza manico e ci riserva le sedie migliori.

King, 25 anni, ha lasciato il Gambia, per cercare fortuna nella tanto idolatrata Italia.

In perfetto italiano ci racconta: “Conoscevo l’Italia grazie ad un ristorante per turisti sulla spiaggia dove andavo, faceva cucina tipica di Pisa. Ho fatto un lungo viaggio in macchina verso la Libia, in alcuni stati dovevo scendere per togliermi dalla strada e procedere a piedi perché era troppo pericoloso”.

Dopo il lungo viaggio ha sfruttato le sue conoscenze di falegnameria per guadagnarsi da vivere.

“Mi ricordo che lavoravo solo legno italiano, vedendo la scritta made in Italy ero sempre più convinto di dove volessi andare, anche se in Libia un giorno sei vivo e il giorno dopo chissà”, dice guardandosi le mani callose. Poi la traversata, il salvataggio, e il ricollocamento a Roma dove ha sostato fino alla perdita del diritto di asilo, lavorando poi a Locarno, Milano e Como fino a raggiungere l’Emilia-Romagna.

Vittima di una narrazione che dipinge l’Europa come la terra promessa la speranza di questi ragazzi è sostituita dalla disillusione di un’accoglienza che ha fallito e li ha relegati in un ghetto chiuso da mura di cemento, nascosti agli occhi della società.

L’area dei capannoni, di poco inferiore al centro storico, ospita una popolazione di quasi 100 persone. Le nazionalità degli inquilini sono le più disparate: possiamo trovare gruppi di origine magrebina, gambiani, ghanesi e senegalesi che hanno dato vita ad una comunità parallela a quella fuori dalle mura.

Nel magazzino di un capannone, una volta adibito alla sabbiatura, un’accaldata cuoca ghanese cucina tacchino dentro ad un pentolone nero di fuliggine. Il frutto dei suoi sforzi verrà venduto per pochi euro agli inquilini delle Reggiane.

Al secondo piano un grande salone pieno di calcinacci è l’anticamera ad una serie di porte abilmente costruite che ospitano veri e propri appartamenti ricavati dagli spazi dove gli impiegati lavoravano quando la fabbrica era in uso. In una di queste porte Paul ha il suo studio da parrucchiere e, poco distante, Alvin aggiusta biciclette di dubbia provenienza che poi vende e affitta.

Appena il sole sparisce dietro ai grandi tetti, dagli alloggi iniziano a salire le note di canzoni rap, chiacchiere e risate. Le comunità sono stabili da almeno 5 anni nell’area e hanno creato una città dentro la città che vive e matura con ritmi completamente diversi dal territorio che la ospita, senza acqua corrente ed impianti elettrici sicuri.

Secondo un’inchiesta pubblicata a marzo 2018 dalla rivista Altreconomia, tra il 2016 e il 2017 almeno 22mila migranti hanno perso il diritto di essere ospitati nei centri di accoglienza italiani, e tra questi anche King e Simon.

Oggi, numerosi ragazzi come loro, non dispongono più dei servizi offerti dallo status di ‘regolare’, come l’accesso alle cure, il supporto psicologico e un tetto sicuro sotto cui dormire.

Reggio Emilia inoltre si trova nel mezzo di un ciclone di respingimenti: a Bologna, dove nel 2018 risultano ospitati 2.214 migranti la prefettura ha disposto 2.202 revoche. Modena si posiziona seconda in Emilia Romagna con 628 respingimenti e Piacenza terza con 265.

Secondo i dati forniti dall’unità di strada UP, che da anni lavora sull’emergenza a Reggio Emilia, oggi la maggior parte delle persone che accedono al servizio sono centrafricani fuoriusciti dai percorsi di accoglienza o ancora in carico.

La loro età va dai 18 ai 30 anni. Tra il secondo semestre 2016 e il secondo semestre del 2017 la loro presenza è cresciuta del 236 per cento, soppiantando completamente quella dei nord africani che risultava preponderante in passato. Tra i diversi paesi, molti dei ragazzi provengono dal Gambia (36 per cento), seguito da Ghana e Nigeria.

Le Reggiane diventano così il punto di riferimento di comunità di respinti che, soprattutto in periodo primaverile ed estivo, con la chiusura dei dormitori invernali, trovano accoglienza e supporto nei propri connazionali, incrementando il numero di inquilini già presenti nell’area.

L’8 febbraio 2018 Medici Senza Frontiere pubblica Fuori Campo, il secondo rapporto sulla situazione degli insediamenti informali e marginalità sociale sul territorio italiano.

La denuncia di Medici Senza Frontiere punta il dito contro un sistema basato su ‘strutture di accoglienza straordinaria, con scarsi servizi finalizzati all’inclusione sociale’.

Sono infatti 47 gli insediamenti informali che Medici senza Frontiere individua in 12 regioni italiane, dove si concentra una popolazione di diecimila persone che non ha accesso a servizi di igiene e sanitari adeguati.

Il rapporto divide anche per grandezza gli insediamenti informali e, secondo la stima, quello delle Reggiane si collocherebbe nella fascia media di insediamento per popolazione. Tuttavia Reggio Emilia non risulta presente tra le 47 città segnalate pur ospitando da tempo una palese e conclamata emergenza umanitaria.

L’emergenza, trasformatasi col tempo in un fenomeno strutturale, è rimasta nascosta sotto un tappeto di indifferenza fino a tre anni e mezzo fa quando è iniziata la riqualificazione dell’ex fabbrica per fare spazio al Parco Innovazione, Conoscenza e Creatività di Reggio Emilia, un’area predisposta a ospitare laboratori di ricerca, uffici e centri universitari.

A Simon come alle quasi 100 persone che vivono stabilmente nel luogo che in un futuro prossimo ospiterà il nuovo quartiere della città è stato dato un preavviso di alcuni mesi per spostarsi, liberare le case, e lasciar procedere i lavori.

Il Comune ha infatti già predisposto lo sgombero e il ricollocamento degli inquilini ‘in regola’ in altre sedi.

Coloro che però non rientrano più in percorsi di accoglienza strutturata, non avranno più un luogo dove vivere: “Mi hanno dato questo foglio di via dicendomi che non posso più rimanere a Reggio”, dice Simon. “Devo andare a Parma o a Piacenza, ma io non so dove siano queste città”.

Il più fiero della comunità gambiana però è King: “Sono cinque anni che abito qui, io sono reggiano, voglio essere reggiano, in questo posto ho costruito la mia casa e ora sono costretto a lasciarla. Per andare dove?”.

La domanda però rimane senza una risposta: per andare dove? Reggio Emilia è infatti lo specchio dell’indifferenza delle istituzioni verso gli insediamenti informali e le persone che essi ospitano.

Quello delle ex Officine Reggiane è un caso ancora più grave, dove un progetto di innovazione che guarda al futuro può impedire che vengano fatte segnalazioni ufficiali di emergenza umanitaria; sulla pelle di chi, ingannato dalla promessa di un futuro in Europa, ora ha dato vita a comunità che stanno nascendo capillarmente in Italia, fuori dagli schemi di una società che, ancora oggi, si gira dall’altra parte.

A cura di Gabriele Gatti e Nicola Fornaciari       

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