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Come distruggere le armi chimiche

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Secondo Assad ci vorrà almeno un anno. Ma non è chiaro quale sia il metodo più adatto

La Siria, accettando l’accordo russo-americano per lo smantellamento del proprio arsenale chimico, ha consegnato giorni fa la lista degli armamenti da rimuovere. Secondo quanto previsto, avrà tempo fino alla metà del 2014 per l’eliminazione delle armi chimiche.

Lo smaltimento è un processo difficile e costoso, e lo stesso Assad in un intervista a “Fox News” ha preventivato un spesa intorno al miliardo di dollari. La guerra civile in atto renderà il tutto ancora più difficoltoso.

La distruzione degli arsenali chimici, richiede due diverse tipologie di approccio, a seconda che si tratti di armi o agenti in sé. Per questi ultimi i due generi principali di metodologia sono l’incenerimento e la neutralizzazione.

La prima tecnica consiste nel portare i prodotti a temperature molto elevate, in adeguati forni, al fine di rompere i legami chimici dei composti tossici e conseguentemente inibirne gli effetti e trattarli come rifiuti pericolosi nei centri di conferimento e smaltimento.

Dal punto di vista ambientale la neutralizzazione è invece la tecnica preferita: avviene per diluizione delle sostanze pericolose in acqua o soda caustica pompate in serbatoi, che porta all’abbassamento della tossicità. Il trattamento successivo prevede la gestione come rifiuto pericoloso o il passaggio in altri serbatoi per l’incenerimento – le cui emissioni sono meno inquinanti, data la diluizione.

Per i missili già armati, la distruzione diventa più complicata. Una soluzione può essere l’uso di unità mobili, che possono essere disposte direttamente sul territorio evitando i rischi del trasporto – soprattutto in zone di guerra.

L’esercito statunitense ne ha sviluppato un tipo, Explosive Destruction System (Eds), che utilizza sostanze chimiche per neutralizzare l’agente tossico per mescolamento. L’unità è costituita da una piattaforma mobile, dov’è posizionato un tamburo chimico al cui interno è posto un cilindro d’acciaio (“bang box”). Il missile viene inserito nella bang box e fatto esplodere : quando la detonazione rilascia l’agente tossico, il tamburo inizia a ruotare diffondendo prodotti neutralizzanti.

Un’altra tecnica è quella della “hot detonation technology”: i missili vengono inseriti in una camera di detonazione scaldata fino a 550°C, una temperatura abbastanza elevate da distruggere sia l’arma che il contenuto chimico. Questa tecnica, sviluppata dalla società svedese Dynasafe, viene utilizzata in Germania, Cina e in parte anche negli Stati Uniti.

Dubbi sulla scelta, riguardano sia la tecnica sia il luogo di trattamento, viste anche le necessità legate alla situazione politica e di sicurezza dell’area. L’uso di unità mobili, richiederebbe l’ingresso di contingenti militari stranieri nel territorio siriano, la cui accettazione è da sottoporre al volere di Assad.

La dottoressa Patricia Lewis (direttrice della ricerca sulla sicurezza internazionale di Chatham House), raggiunta dalla BBC, ha suggerito di trasportare le armi nella base russa di Tartus, stoccarle e poi smistarle verso altre posizioni (sempre in Russia anche per ragioni di diplomazia), per le fasi successive – sebbene il programma di distruzione russo sia avviato, è in questo momento a pieno regime e con grosse quantità ancora da smaltire.

Poi c’è il problema del tempo: in Libia , dove si trovava un arsenale molto più limitato, fu costruito un impianto in situ, ma i nove mesi di termine fissati per il momento dalla Convenzione sulle armi chimiche non lo permetterebbero. La stessa convenzione non permetterebbe nemmeno più rapide operazioni, come il seppellimento in calcestruzzo, la diluizione in mare e l’esplosione in pozzi profondi, utilizzati in Iraq negli anni Novanta.

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