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Home » Esteri

Il campo profughi nel cuore dell’Europa che nessuno vuole

Immagine di copertina

Laura Stahnke ha realizzato per TPI un reportage da Calais, città francese dove i profughi sperano di raggiungere il Regno Unito

La prima cosa che colpisce di Calais è il fango. Fango
ovunque, intervallato da pozze d’acqua. Chi abita nel campo da più tempo sa
quali sono i sentieri che non nascondono buche in cui sprofondare fin sopra
alle caviglie, ma chiunque viva nella Giungla si riconosce comunque dalle
scarpe perennemente sporche che lasciano impronte bagnate ad ogni passo. 

Sopra questa distesa di fango si ergono migliaia di tende.
Il colore predominante per qualche ragione è il blu. Sono tende da campeggio:
si riconoscono molte Quechua, tra le più popolari tra i campeggiatori fai-da-te di tutta Europa, ma anche strutture di tela cerata e assi di fortuna.
Qualche struttura di legno compensato e poche roulotte spiccano tra la
moltitudine di tende.

Al mattino presto inizia la prima tra le file che
contraddistinguono la vita nel campo: quella per riempire le taniche d’acqua.
Al momento più di 6000 migranti vivono nella campo profughi di Calais diventato
noto come the Jungle, la Giungla, e
tutti si riforniscono di acqua presso le poche bocchette sparse all’interno del
campo. Acqua potabile, lampioni illuminati di notte e reticolati di filo
spinato a delimitare i confini del campo sono gli unici investimenti realizzati
da parte del governo francese all’interno del campo profughi che ormai da anni
si erge nel cuore dell’Europa. La popolazione del campo è fluida. C’è chi vi abita da
alcuni mesi, chi da pochi giorni. Fino all’estate scorsa si stimava che la
popolazione della Giungla si aggirasse intorno alle 3000 persone, ma nel giro
di pochi mesi il numero degli abitanti del campo è raddoppiato. Nessuno arriva
con l’idea di restare, e tutti hanno la stessa meta in mente: la Gran Bretagna.

Calais è la città francese più vicina al Canale della
Manica, che segna il confine con l’Inghilterra. Persone in arrivo da Eritrea,
Sudan, Afghanistan, Siria, Iraq, Iran, Kurdistan, Pakistan si ritrovano qui con
l’obiettivo di attraversare il confine ed arrivare a quella che molti vedono
come la meta finale del loro viaggio. Per chi il Caso ha dotato di un passaporto europeo
attraversare la frontiera tra i due paesi è una questione di pochi minuti. Per
gli abitanti del campo servono mesi di tentativi, nascondendosi nel retro di
camion, saltando su treni in corsa, o cercando di infilarsi sui traghetti che
più volte al giorno si spostano tra Calais e Dover, in Inghilterra. 
The Jungle è
quindi il campo dell’attesa: tutti aspettano la propria occasione di riuscire
ad attraversare la frontiera senza essere scoperti dalla polizia di dogana.

Il campo è diviso in diverse comunità nazionali: kurda,
afghana, eritrea, sudanese, irachena. È difficile che gli appartenenti alle
diverse comunità si mescolino tra loro, anche a causa di barriere linguistiche. Nonostante ciò, la Giungla sta diventando uno dei villaggi
più cosmopoliti d’Europa. A pochi passi dalla chiesa Eritrea si trova ad
esempio il Caffè Kabul, centro della comunità afgana. Voltato l’angolo vi è
invece il Restò du Monde, dove è possibile comprare il pane
nan tipico dell’Asia Centrale e
Meridionale.

Chi era commerciante o ristoratore in patria ha portato con
sé il proprio spirito imprenditoriale, dando vita a business che sorgono
all’interno di tende e strutture di fortuna. Oltre ad offrire in vendita pasti
caldi o beni di prima necessità, questi luoghi spesso si trasformano in
catalizzatori per le comunità di appartenenza. Televisioni appesi alle pareti
mostrano video musicali in lingue che non so riconoscere, mentre ciabatte e multiple
per la corrente sono costantemente occupate da cellulari in carica.

Oltre a questi ristoranti, nel campo vi sono varie cucine
comunitarie che offrono pasti gratuiti a centinaia di persone ogni giorno.
Donazioni di cibo arrivano costantemente da singoli individui di diversi Paesi,
primo fra tutti l’Inghilterra. 
In molti qui si sentono responsabili per la cortina di ferro
che il governo di Cameron ha letteralmente erto al di fuori dei propri confini
per tenere lontani gli abitanti della Giungla dalle coste britanniche. Per
molti inglesi il modo per manifestare dissenso con le scelte politiche del
proprio Paese è quindi mandare donazioni alle organizzazioni di volontari che
operano a Calais, o spendere il loro tempo libero per aiutare come possono.

Oltre alle cucine comunitarie, vi sono due magazzini dove le
donazioni di vario genere vengono smistate – impermeabili da uomo taglia S a
sinistra, taglia M al centro, L a destra. Stivali impermeabili numero 41 in
basso a destra. E così via. Distribuzioni di kit di prima accoglienza avvengono
regolarmente. Volontari e abitanti del campo lavorano fianco a fianco
nelle cucine comunitarie, nella biblioteca che raccoglie libri in inglese,
arabo, francese e urdu, e in un teatro sorto nel centro della Giungla dove di
sera la musica riunisce abitanti delle diverse comunità e volontari: tutti
ballano allo stesso ritmo, in un’atmosfera che ha poco di diverso rispetto a
quella di discoteche e
concert halls
sparse in tutta Europa. 
Questo sistema però conta solo su volontari e su singole
donazioni. Istituzioni pubbliche né francesi né inglesi collaborano a fornire
beni di prima necessità o cibo a chi vive nel campo profughi al confine tra i
due Paesi. A parte qualche rara eccezione, grandi assenti sono inoltre le
maggiori ONG internazionali e le Nazioni Unite, altrimenti impegnate ovunque
nel mondo in contesti simili. In molti si interrogano su cosa succederà quando
il tempo, l’attenzione e la disponibilità di volontari e donatori finiranno.


Ciò in cui i governi britannici e francesi si stanno
prodigando sono sistemi per mantenere gli abitanti della Giungla lontani dalla
Gran Bretagna. L’Inghilterra ha infatti investito
15
milioni di sterline
per erigere alte palizzate sormontate da filo spinato
attorno alla Giungla e al porto di Calais. Allo stesso tempo, ha fatto forti
pressioni sul governo francese affinché indurisca i controlli alle proprie
frontiere. 
Il risultato è che nella Giungla
la presenza dello stato si percepisce solo nel momento in cui ci si allontana
dal campo profughi. Poliziotti in tenuta antisommossa pattugliano le strade che
portano alla stazione e all’Eurotunnel, mentre camionette della
gendarmerie percorrono instancabili le
stesse strade, dando l’impressione di essere in un contesto bellico.

Calais, più che rappresentare una
minaccia reale per la Gran Bretagna, è diventato il simbolo della chiusura dei
confini britannici ai migranti extra europei. I numeri lo dimostrano: ad agosto
2015 erano registrati più
di 600.000 italiani
che vivevano in Gran Bretagna per studio e lavoro.
Cento volte il numero degli abitanti della Giungla. I cittadini dell’intera UE
che risiedono in Gran Bretagna sono invece
più di 3 milioni.
500 volte il totale dei profughi bloccati a Calais. Di
fronte a questi numeri, credere alle previsioni apocalittiche di Cameron
secondo il quale gli abitanti della Giungla sono un’orda di migranti pronti ad
invadere il Regno Unito risulta quindi difficile. I profughi bloccati a Calais sono
però diventati il capro espiatorio ricettore dei discorsi nazionalisti
britannici; la Giungla e il confine Calais-Dover sono ora il display della
forza e dell’impegno britannico nel mantenere quanti più migranti possibili
fuori dai propri confini.

Organizzazioni locali sia inglesi
che francesi offrono aiuto e consulenza legale a chi abita nella Giungla. In
molti hanno familiari che già vivono in Inghilterra, e legalmente hanno diritto
a un visto per riunificazione famigliare. Ironia della sorte, potranno fare
domanda ed ottenere il visto solo una volta sul suolo britannico. Nel frattempo, anche solo
pubblicare dalla Giungla una foto su Facebook in cui il viso sia ben
riconoscibile può diventare pericoloso per chi farà domanda d’asilo in Gran
Bretagna. Con un’applicazione quasi inverosimile del trattato di Dublino,
queste foto possono essere usate dalle autorità britanniche per dimostrare che
l’Inghilterra non è il primo Paese europeo in cui il richiedente asilo abbia
soggiornato, e possono quindi servire come base per una deportazione verso la
Francia.


Nonostante queste pressioni e
questo clima internazionale che fa sentire migranti e rifugiati male accetti
ovunque mettano piede in Europa, molti di loro sono pieni di sogni e di
speranze. Passano le giornate in gruppo, e si sente ridere spesso. E in molti
casi, a chi vive nel campo piace raccontarsi.

Erdem vive nella Giungla da
qualche mese. Ha 24 anni, viene dal Kurdistan iracheno, ed è sempre in cerca
della sua occasione, ‘my chance’, per
arrivare in Inghilterra. La polizia di frontiera l’ha già trovato nascosto su
camion o treni otto volte, e per otto volte l’hanno tirato giù, picchiato e
scaricato una bomboletta lacrimogena sugli occhi. Con gli occhi fuori uso non
potrà cercare di saltare su camion o altri mezzi per attraversare la frontiera,
almeno per un po’. In cinque di queste occasioni
volte Erdem è stato invece portato dalla polizia francese al confine con la
Spagna, a centinaia di kilometri da Calais e la Manica, e scaricato qui sul
bordo di una strada. Un invito esplicito da parte del governo a lasciare il
suolo francese e incamminarsi verso la Spagna. Per 5 volte Erdem è tornato a
Calais.

I tentativi per arrivare in
Inghilterra avvengono di notte. Di giorno, Erdem lavora all’Ashram Kitchen, una
delle cucine comunitarie che due volte al giorno prepara un pasto caldo per 500
persone. Il fratello di Erdem ha un ristorante in Kurdistan, e lui è in grado
di maneggiare con disinvoltura pentole gigantesche e cucinare per centinaia di
persone, con ottimi risultati. Erdem si veste di nero e ha una
barba corta e curata, una cintura con la fibbia spostata su un lato e scarpe
che ricordano le All Star. Ogni tanto si fuma una sigaretta rollata col tabacco
West Virginia che un volontario gli ha regalato. Per le strade di Londra si
confonderà con altri ragazzi della sua età vestiti con lo stesso stile. 
Ogni tanto si siede col cellulare
in mano e l’aria assente. Ha 5 fratelli e 4 sorelle, e continua a guardare le
stesse foto di famigliari e amici salvate sul suo telefono, facendole vedere a
chiunque si sieda con lui. In Kurdistan era un militare, un
freedom fighter impegnato nella lotta
contro l’ISIS. Quest’ultimi però hanno conquistato la zona in cui operava, e
lui è dovuto scappare, lasciandosi tutto indietro. Teme che non potrà rivedere
mai più la propria famiglia. 
“La Giungla è un posto orribile,
ma c’è vita,” racconta. “In Kurdistan ora non c’è più vita”.


Saman è un suo amico. Anche lui
di giorno lavora all’Ashram Kitchen, mettendosi dietro a pentoloni fumanti e
distribuendo stufato di verdure o riso alle centinaia di persone che ogni
giorno entrano nel tendone che ospita la cucina. 
Il padre di Saman più di 10 anni
fa lasciò il Kurdistan iracheno e arrivò in Inghilterra dall’Iran. Sul
cellulare Saman ha foto del padre che lo ritraggono mentre lavora in un KFC,
una catena di fast food. Dal 2007 però il padre ha smesso di dare ogni tipo di
notizie alla famiglia rimasta in Kurdistan. Nessuno sa che fine abbia fatto. 

Saman ora ha 24 anni. Suo
fratello è stato ucciso dall’ISIS, o Daesh, come la chiamano in molti nella
Giungla. Sua madre e un altro fratello sono ancora in Kurdistan, ma non sa se
siano vivi o morti. Quando la sua città è stata invasa dalle forze dello Stato
Islamico, Saman è scappato. 
Ha attraversato la Turchia, è
arrivato in Grecia via mare e da lì ha iniziato il viaggio che accomuna le
centinaia di migliaia di persone entrate in Europa nel corso del 2015. Di tutti
i paesi attraversati, dice che la Bulgaria è stato il peggiore: qui la polizia
l’ha bloccato, picchiato e derubato di tutto ciò che aveva con sè.
 Saman vuole arrivare in
Inghilterra per trovare suo padre. È sicuro che non sia morto. Ogni tanto prova
a fare ipotesi su dove sia finito. Una volta dice: “magari ha trovato una
ragazza, si è sposato e dimenticato di noi”. Poi alza gli occhi al cielo, dice
sorryfather”, quasi come temesse che
il padre lo possa sentire e offendersi per l’ipotesi avanzata.

Saman non capisce come mai
l’Inghilterra non possa accogliere le 6000 persone che vivono nella Giungla.
“Il Kurdistan è un paese piccolo, siamo solo 5 milioni,” spiega. “Quando l’ISIS
è iniziata a diventare una minaccia in Iraq, più di 5 milioni di iracheni si
sono rifugiati nelle nostre città. Come è possibile che il Kurdistan riesca ad
ospitare 5 milioni di persone, e la Gran Bretagna non possa farne entrare
6000?”. Saman è stato bloccato più volte
dalla polizia francese. Conferma ciò che Erdem ha raccontato: botte e spray
lacrimogeno sono nella prassi comune di gestione migranti per le forze
dell’ordine locali. Anche Saman è stato portato lontano da Calais: è stato
infatti costretto su un aereo che lo ha portato a Toulouse, città nella Francia
meridionale vicino al confine con la Spagna. A centinaia di kilometri da Calais
è stato interrogato e un giudice l’ha infine rilasciato. Ora va in giro con un
documento di 30 pagine piegato in tasca, in cui si stabiliscono i punti di un
processo che lui stesso non capisce come possa essersi svolto così lontano da
dove era stato catturato. 
Finito il processo, Saman è
tornato a Calais. Proverà ancora ad arrivare in Inghilterra, dove è sicuro che
troverà suo padre. Nel frattempo passa le giornate all’Ashram Kitchen, tra
volontari e altri abitanti della Giungla.


‘L’Italiano’ invece è afghano.
Nel campo viene chiamato così perché ha passato diversi mesi in Italia, dove
gli è stato riconosciuta protezione umanitaria temporanea. Racconta che ha
lasciato l’Afghanistan quando il suo villaggio è stato distrutto dai talebani. 
‘L’Italia è buona’, mi dice in
italiano, ‘ma non c’è lavoro. In Afghanistan ero un meccanico, ma in Italia non
sono riuscito a trovare niente che mi pagasse abbastanza per sopravvivere.
Proverò in Inghilterra’. Sarà difficile per lui. Il trattato di Dublino
stabilisce che chi sia stato identificato in un paese europeo non può spostarsi
verso altri stati dell’Unione, ma deve restare nel paese in cui gli hanno preso
le impronte digitali per la prima volta. Lui lo sa, ma ci proverà lo stesso.

Non è l’unico che ha già un
permesso di soggiorno italiano. In molti fanno mostra delle tessere
plastificate rilasciate da questure sparse sul territorio italiano, e tutti
confermano la stessa versione dei fatti: in Italia non c’è lavoro, meglio
tentare altrove. Scherzando l’Italiano dà un’altra
motivazione al suo voler lasciare il Bel Paese: ‘In Italia non ho trovato
nessuna ragazza che mi volesse sposare! Sono davvero così brutto?’


Bawan ha sei anni, ed è kurdo
anche lui. Porta degli stivali di gomma in cui i suoi piedi devono ancora
crescere e che lo fanno camminare come una paperina. Ha le guance piene che
attirano baci e un sorriso bellissimo. Tutte le sere cena all’Ashram Kitchen
con suo padre, che lo segue con uno sguardo preoccupato e innamorato allo
stesso tempo. Si siedono sempre nello stesso angolo e mangiano in silenzio. 
Non parlano inglese, maBawan è
contento di interagire con gli altri. Il padre una sera lo esorta ad offrire ai
volontari le caramelle che qualcuno gli ha regalato, e lui lo fa con un
sorriso.

Come molti degli abitanti della
Giungla, il padre passa molto tempo a scorrere foto sul cellulare. Si sofferma
spesso su quella della moglie: una ragazza con gli occhi seri nonostante il
sorriso, e un hijab verde che le
incornicia il volto. È stata uccisa da una bomba. Dopo la sua morte, Bawan e il
padre sono partiti.

Abraham ha 25 anni ed è eritreo.
È arrivato con suo cugino e passa il suo tempo nella biblioteca cheoccupa una
delle tende della Giungla. Legge di giorno, e cerca di attraversare il confine
di notte. Anche lui racconta di spray lacrimogeno sparato negli occhi le volte
che è stato catturato dalla polizia di frontiera. Quando ciò accade, non riesce
più a leggere il giorno dopo. Abraham è uno di quelli che sono
arrivati in Europa seguendo la rotta ‘classica’ attraverso il Sahara e il
Mediterraneo, sbarcando a Lampedusa. 

Del deserto e della traversata in
mare non dice niente, ma racconta che è stato per qualche settimana in un campo
di accoglienza in Calabria. Una volta lasciata la Calabria, ha attraversato
l’Italia ed è arrivato in Francia. Dice che Roma è bellissima, ma si è
innamorato di Bologna. Ha provato a restare, ma anche lui è stato spinto fuori
dall’Italia dalla mancanza di lavoro. 
Sa qualche parola di italiano.
Dice che suo nonno ai tempi del fascismo e delle colonie sapeva parlarlo molto
bene. Lui sa contare fino a dieci, dire come si chiama e il nome di qualche
professione. In Eritrea faceva l’autista d’autobus. 
È scappato da una dittatura
militare che, racconta, in Eritrea rende la vita impossibile a chiunque.


Arash è iraniano. Ha fatto
l’università a Roma dove ha studiato psicologia e parla italiano benissimo.
Racconta quello che si ricorda di Roma: la pizza al taglio per strada, le aule
della Sapienza, gli autobus arancioni. Parla di un bar vicino al Pantheon che
faceva un caffè “spettacolare”. 
Finita l’università è tornato in
Iran, dove ha insegnato a sua volta e ha pubblicato un libro. A causa di questo
libro ha dovuto lasciare il paese: le idee espresse non sono state ben accette
dal regime.

Arash è arrivato in Europa con un
visto Schenghen, ma vuole trasferirsi in Inghilterra, dove abita suo fratello.
Dice che vuole vivere in un paese in cui possa sentirsi libero di scrivere
quello che pensa senza sentirsi in pericolo.