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Le foto che mostrano la violenza psicologica inflitta a chi non è etero con frasi apparentemente innocue

Immagine di copertina
"Quello che fate voi non è davvero sesso" - Alice e Fede

“Devi ancora trovare l’uomo giusto”, “Perché non ti piace il sesso? Hai subito un trauma?”, “Ma sei sicuro? Perché non provi con le femmine?”

Sono tutte frasi apparentemente innocue, pronunciate spesso con leggerezza da chi – eterosessuale – si trovi a confrontarsi con qualcuno che invece eterosessuale non è, e voglia quindi togliersi qualche curiosità.

Sono (non sempre, ma spesso) pronunciate spontaneamente, senza malizia, e senza riflettere adeguatamente sull’impatto che simili parole potrebbero avere sull’interlocutore.

Proprio questa spontaneità, però, rivela una concezione dell’identità di genere fortemente legata ad un concetto binario e stereotipato, forte della ferrea distinzione maschio/femmina caratterizzata dall’attribuzione ad ogni genere di specifici caratteri e ruoli.

Il messaggio che si trasmette a chi sfugge alle tradizionali definizioni massificate di “maschio” e “femmina” è molto duro: simili domande, intrise di pregiudizio nei confronti di gay, lesbiche, bisessuali, transessuali e asessuali, rischiano infatti di ferire profondamente l’interlocutore, condannandolo a sentirsi continuamente studiato, analizzato, da capire.

Secondo Alice Ciccola e Mary Di Perna, infatti, la leggerezza non è un alibi. Con Gabos photography hanno lanciato il progetto fotografico #weighyourwords, pesa le tue parole, per sensibilizzare il pubblico sul delicato tema della violenza psicologica che – passando spesso in sordina – colpisce quotidianamente gli appartenenti alla comunità LGBTQIA+.

Scopo del progetto, naturalmente, non è limitare le possibilità di confronto, ma solo spronare tutti ad evitare un’eccessiva leggerezza, che scarichi completamente sull’altro il peso di dovere giustificare la sua mancata corrispondenza al nostro personale schema mentale.

Ecco la presentazione del progetto da parte delle autrici:

La leggerezza non è un alibi.
Violenza psicologica: “Azione volontaria, esercitata da un soggetto su un altro, in modo da determinarlo ad agire contro la sua volontà. Si può manifestare con parole e/o atti che influenzano l’altra persona nella sua percezione di essere amata o trascurata. Questa violenza può sfociare in un trauma psicologico che può includere ansia, depressione cronica e disturbo da stress post-traumatico.” (Wikipedia) Nei casi più gravi si parla anche di suicidio.

Molte volte ci siamo ritrovati ad ascoltare frasi all’apparenza banali e fuori dai canoni dell’insulto o dell’offesa grave, che tuttavia ci hanno feriti o messi fortemente a disagio.

Nei confronti delle persone appartenenti alla comunità LGBTQIA+ questo tipo di violenza è molto comune.

Sottovalutata ma estremamente invasiva, viene utilizzata in modo subdolo, a volte mascherata da finta ingenuità o da amorevole consiglio. Nella maggior parte dei casi i “carnefici” sono proprio le persone più care, come membri della famiglia, amici o colleghi.
Persone che non si reputano omofobe, che magari pensano anche di peccare di eccessiva comprensione e cordialità nel rivolgere domande di carattere intimo o nello sputare sentenze prive di ogni fondamento logico.

“Weigh your words”, “Pesa le tue parole” vuole suscitare maggiore sensibilità e invitare tutti all’uso dell’empatia, che sembra stia scomparendo lentamente in una società in cui incitare all’odio è all’ordine del giorno.
#weighyourwords

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