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Home » Esteri

La crisi tra Grecia e Portogallo

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Nuovi preoccupanti dati sulla disoccupazione accomunano i due Paesi europei

Non si arresta la crisi in alcuni Stati dell’Unione Europea. Portogallo e Grecia, così lontani ma mai così simili dal punto di vista finanziario, oggi affrontano una crisi che ha toccato livelli storici e dati record.

Secondo l’Istituto di statistica ufficiale di Atene, il Paese ellenico ha raggiunto a febbraio un nuovo record di disoccupazione, tasso che ha sfiorato il 27 per cento, un +0,3 per cento su base mensile e un +5,1 per cento su base annua. Rispetto all’anno scorso sono 245 mila i nuovi disoccupati e 11 mila sono state le persone che hanno perso il lavoro in un anno. In cinque anni la Grecia ha vissuto una serie negativa storica raggiungendo un dato finale che presenta 4,6 milioni tra inattivi e disoccupati.

Dati preoccupanti anche per il Portogallo, che ha toccato il suo record storico di disoccupazione proprio nel primo trimestre del 2013, quando i portoghesi senza lavoro raggiungevano quota 17,7 per cento – 10 punti percentuali in più rispetto al 2008 – con un aumento percentuale trimestrale di 0,8 punti percentuali ed un aumento su base annua del 2,8 per cento.

Sia Atene che Lisbona trovano un altro dato comune nella disoccupazione giovanile che in Grecia è triplicata (il tasso dei giovani tra i 14 e i 25 è il 64 per cento, tra i 25 e i 34 anni è al 36 per cento) mentre a Lisbona tocca il dato record del 42 per cento (un aumento di 5,9 punti percentuali rispetto allo stesso trimestre del 2012).

In Portogallo esiste il Movimento sem emprego, un gruppo spontaneo formatosi nel 2012 riunendo tutte quelle persone in difficoltà perché senza un lavoro. Il movimento si è appellato alle Nazioni Unite chiedendo che vi sia “Un’effettiva attuazione dell’articolo 23 della Dichiarazione universale, cui il Portogallo è vincolato da trattati internazionali, che sancisce che ogni individuo abbia diritto al lavoro”.

Così, la valvola di sfogo per tutti quelli senza un lavoro è andare via dal proprio Paese o lavorare in nero. Non c’è alcuna tutela dei sindacati che risultano impotenti di fronte ad una crisi che ha assunto forme continentali e neanche un titolo di studio come la laurea basta a quei giovani che cercano un lavoro e che – call center permettendo – possono ambire a un salario di 485 euro per otto ore giornaliere.

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