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Home » Esteri

Guerra in Iran, Farian Sabahi a TPI: “La democrazia non si esporta con le bombe”

Immagine di copertina
Credit: AGF

“Radere al suolo Teheran non farà sì che gli iraniani accolgano Netanyahu o l’erede dei Pahlavi”. La storica spiega a TPI perché non si può giustificare la guerra di Israele e Usa all'Iran con la retorica della liberazione: “I diritti possono aspettare”

Lo scontro in atto tra Israele e Iran ha reso ancor più incandescente la situazione in Medio Oriente. E l’ingresso nel conflitto degli Stati Uniti getta nubi fosche sugli scenari futuri. Ne abbiamo parlato con la professoressa Farian Sabahi, ricercatrice senior in Storia contemporanea presso l’Università dell’Insubria e autrice di libri come “Storia dell’Iran” (Saggiatore) e “Noi donne di Teheran” (Jouvence).

Professoressa, come spiegherebbe le ragioni, storiche e politiche, che hanno portato a questo scontro tra Israele e Iran? Qual è il reale obiettivo di Netanyahu?
«Le ragioni sono molteplici. In primis le invettive della leadership della Repubblica islamica che da 46 anni urla “morte a Israele”, nonché il sostegno militare e finanziario iraniano a Hamas e Hezbollah, acerrimi nemici dello Stato ebraico. In secondo luogo, due questioni interne alla politica israeliana: il premier Netanyahu ha perso la guerra contro Hamas e, facendo 60mila morti tra i gazawi, ha visto erodere il suo consenso sia internamente sia all’estero. Rischiava una crisi e, per ricompattare il governo di coalizione, ha assicurato agli ultraortodossi che avrebbe bombardato l’Iran. In terzo luogo, la diplomazia iraniana stava giungendo a un accordo con gli Stati Uniti, grazie alla mediazione dell’Oman: l’attacco israeliano di venerdì 13 giugno e i bombardamenti statunitensi nella notte del 21 lo hanno fatto irrimediabilmente saltare, nel senso che non resta granché su cui negoziare. Inoltre, il controllo delle vie marittime è cruciale per le potenze egemoniche: gli Usa vogliono prendere possesso dello Stretto di Hormuz e controllare quindi quel tratto di mare da cui transita giornalmente il 30 per cento del petrolio del pianeta e il 60 per cento dei fabbisogni energetici della Cina. Di pari passo, Israele ha bombardato le fabbriche di missili e droni dell’Iran, e quindi ha messo fuori uso la capacità di Teheran di rifornire la Russia di droni. L’Iran non è quindi l’unico obiettivo».

Davvero l’Iran era a un passo dalla produzione della bomba atomica?
«Secondo l’intelligence statunitense, citata dalla Cnn, mancavano almeno tre anni prima che Teheran potesse giungere all’atomica e, in ogni caso, non c’era traccia di un programma nucleare a fini militari. Parlando al Consiglio di Sicurezza Onu sul conflitto tra Israele e Iran, il 20 giugno il direttore generale dell’Aiea Rafael Grossi ha detto che l’agenzia nucleare delle Nazioni Unite “può garantire, attraverso un sistema di ispezioni inconfutabili, che in Iran non verranno sviluppate armi nucleari”. Di conseguenza, molti analisti ritengono che l’arricchimento dell’uranio da parte dell’Iran sia un fattore marginale, preso a pretesto».

Può essere il conflitto armato lo strumento giusto per abbattere un regime?
«La Storia ci insegna che la democrazia non si esporta con le bombe. Radere al suolo Teheran, come promette il premier Netanyahu e come auspica lo storico Benny Morris, non farà sì che gli iraniani accolgano a braccia aperte il premier Netanyahu oppure l’erede al trono dei Pahlavi. Chi semina vento raccoglie tempesta. E qui l’aviazione israeliana sta seminando morte tra i civili iraniani e distruggendo le infrastrutture dell’Iran».

L’Iran è un Paese articolato e vasto, con circa 90 milioni di abitanti. Israele può essere visto come il liberatore dalla dittatura di Khamenei?
«Assolutamente no. In questi giorni sto intervistando diversi iraniani in Iran e membri dell’opposizione nella diaspora, soprattutto donne. Nessuno auspica le modalità – ovvero i bombardamenti anche nei quartieri residenziali – con cui Israele sta “liberando” l’Iran. Anche esponenti importanti dell’opposizione, persone che hanno scontato anni nella prigione di Evin come la Nobel per la pace 2023 Narges Mohammadi e il regista Jafar Panahi, stanno chiedendo la fine dei bombardamenti israeliani sull’Iran. Sono in molti a temere di fare la fine dei gazawi».

Come sta vivendo questa fase la popolazione locale?
«Dapprima con stupore, perché nessuno si aspettava il bombardamento israeliano del 13 giugno, tant’è che anche i capi dei pasdaran e dell’esercito dormivano sonni tranquilli nei loro letti, quando sono stati uccisi dai droni israeliani. Dopodiché con paura: chi se lo poteva permettere ha lasciato i centri abitati, dove non ci sono bunker, e ha trovato rifugio a nord, sul Mar Caspio, e nelle zone rurali. Ora a dominare è la rabbia nei confronti di Israele, come pure del regime iraniano che si è messo nelle condizioni – con le invettive contro Israele e contro gli Usa, e con la sua politica scellerata – di far sì che Israele bombardasse l’Iran. Ma la rabbia degli iraniani in patria è anche nei confronti di un’Europa che si erge a paladina dei diritti umani ma ha taciuto di fronte allo sterminio di 60mila palestinesi e ora tace di fronte all’evidente violazione, da parte di Netanyahu e Trump, del diritto internazionale».

Che ruolo giocano i Paesi musulmani mediorientali, come l’Arabia Saudita, e quale può essere il loro interesse?
«Dipende dai Paesi. In ogni caso nessuno vuole essere tirato dentro in questo conflitto, anche se a molti farebbe comodo vedere indebolito l’Iran. Le sei monarchie sunnite del Golfo hanno condannato i bombardamenti israeliani. In prima linea a fianco dell’Iran, in cerca di una soluzione diplomatica, è l’Oman. Ed è proprio l’Oman che avrebbe dovuto ospitare, domenica scorsa, il sesto round di colloqui tra Usa e Iran, colloqui che avrebbero molto probabilmente portato a un accordo».

Come giudica la posizione dell’Europa e dell’Occidente in generale nei confronti dell’Iran?
«L’Ue è schiacciata sulle posizioni israeliane. In teoria il presidente statunitense Trump non avrebbe dovuto bombardare l’Iran senza aver chiesto preventivamente al Congresso di autorizzare l’uso della forza militare. Le leggi statunitensi sono chiare su questo punto. In base alla Costituzione, solo il Congresso ha il potere di autorizzarla. L’attacco americano di domenica scorsa è stato una violazione del diritto internazionale e della Costituzione statunitense».

Quali possono essere i rischi per i nostri connazionali che si trovano in Iran?
«La Farnesina stima che gli italiani ancora a Teheran siano 400. Le bombe israeliane non ti chiedono però che passaporto hai, muori e basta. Il 19 giugno il ministro degli Esteri Tajani ha finalmente comunicato che la Farnesina sta lavorando per facilitare l’uscita da Teheran e da Israele dei nostri connazionali con dei voli charter che saranno a pagamento».

Quali possono essere i possibili scenari futuri? Teme un’ulteriore escalation e un allargamento del conflitto?
«È difficile fare previsioni. Il parlamento iraniano minaccia di chiudere lo stretto di Hormuz e nel momento in cui parliamo la questione è oggetto di discussione al Consiglio Supremo della Sicurezza Nazionale a Teheran. In ogni caso questa misura sarebbe controproducente per lo stesso Iran».

Come valuta la candidatura di Reza Ciro Pahlavi, il figlio dello scià? Può contribuire alla transizione democratica del Paese?
«La monarchia dei Pahlavi si era macchiata di innumerevoli violazioni dei diritti umani. Per questo motivo, nel 1978-79 le iraniane e gli iraniani si erano ribellati e avevano rovesciato la monarchia. Pensare a un ritorno dei Pahlavi può piacere ad alcuni oppositori, soprattutto nella diaspora. Ma difficilmente un personaggio come Reza Ciro potrebbe essere accolto a braccia aperte dagli iraniani, che hanno consapevolezza dei suoi legami anche familiari con Israele: una sua figlia ha sposato un israeliano e lui stesso si è recato in Israele e, secondo coloro che lo contestano, avrebbe “baciato la mano di Netanyahu”. Se fosse imposto agli iraniani come leader in un Iran post-Repubblica islamica, sarebbe molto probabilmente un fantoccio nelle mani degli Stati Uniti».

L’Iran negli ultimi anni è stato teatro di numerose proteste, penso al movimento “Donna, vita, libertà”. Quali sono stati gli obiettivi raggiunti, nonostante la forte repressione della politica?
«In Iran la repressione di regime continua, anche sotto i bombardamenti israeliani. In questi giorni diverse persone sono state arrestate con l’accusa di spionaggio a favore di Israele. In questi anni il movimento “Donna vita libertà” ha creato maggiore consapevolezza – in Iran e all’estero – sulle violazioni dei diritti umani in Iran. Grazie alle attiviste, oggi tante iraniane non mettono più il velo. I bombardamenti israeliani hanno però messo in secondo piano questa battaglia per i diritti. Ora, in tutto l’Iran, la priorità è sopravvivere ai bombardamenti israeliani».

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