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    Siamo sicuri che la chiusura delle frontiere aiuta a impedire il diffondersi del Coronavirus?

    Credits: EPA/Enric Fontcuberta
    Di Carmelo Leo
    Pubblicato il 1 Ott. 2020 alle 19:20

    Coronavirus, la chiusura delle frontiere impedisce diffondersi dei contagi?

    A marzo scorso, il villaggio tirolese di Ischgl fu travolto dalle polemiche perché migliaia di turisti, andati in Austria a sciare, finirono per contrarre il Coronavirus: in Italia era iniziato da poco il lockdown, ma l’Europa era ancora lontana dal decidere la chiusura delle frontiere. Centinaia se non migliaia di persone si infettarono e poi, senza alcun controllo, tornarono nei loro Paesi di residenza, contribuendo non poco ad alimentare piccoli focolai di Covid-19 in giro per il mondo. La città di Ischgl – e soprattutto i gestori degli impianti sciistici – finirono sulla graticola perché accusati di voler salvaguardare più gli affari che la salute pubblica. Nelle settimane successive, dopo la chiusura anticipata della stagione sciistica, in tutta Europa vennero imposti lockdown nazionali, spingendo l’Ue a chiudere le frontiere esterne e i singoli Paesi a stilare liste di Stati da cui bloccare ingressi e uscite. Ma se da un lato la chiusura dei confini ha garantito meno promiscuità tra popolazioni diverse, dall’altro ha fatto sì che economie già deboli crollassero a picco, senza considerare le maggiori difficoltà a far circolare medicine e garantire soccorsi. Siamo dunque sicuri che la chiusura delle frontiere abbia aiutato a impedire il diffondersi del Coronavirus?

    A porsi questa domanda, oggi, è stato il New York Times, che ha pubblicato un’analisi su come si sia evoluto il turismo di massa globale negli anni, da ben prima dell’arrivo del Covid a oggi. A partire da quando, negli anni Novanta, il diffondersi del colera in alcuni Stati spinse l’Oms a rivedere le regole condivise, che fino ad allora prevedevano l’interruzione del solo commercio esclusivamente in caso di epidemia da colera, febbre gialla o colera. Nei primi anni Duemila, poi, l’arrivo della SARS fece il resto. Così ci fu l’ultima revisione del Regolamento sanitario internazionale: sebbene le nuove regole non proibissero esplicitamente ai Paesi di chiudere le frontiere o di limitare il commercio, venne sottolineato che quella decisione doveva essere solo l’extrema ratio. Anche quando è esploso il Coronavirus, del resto, l’Organizzazione mondiale della sanità ha consigliato di non limitare i viaggi.

    “Quello che ora è chiaro, tuttavia – spiega ancora il New York Times – è che quelle decisioni erano più politiche ed economiche, che a tutela della salute pubblica”. In altre parole, accusa il quotidiano americano, un po’ come successo anche nel villaggio tirolese di Ischgl la volontà primaria era stata quella di salvaguardare i conti pubblici dei singoli Stati piuttosto che il benessere dei cittadini. Ma la cosa più curiosa è che, ancora oggi, non esistono studi scientifici che dimostrano chiaramente se la politica delle frontiere aperte o chiuse abbia un impatto sul reale andamento dei contagi. “A questa domanda – ha dichiarato Keiji Fukuda, ex membro dell’Oms e oggi professore all’università di Hong Kong – chiunque sia sincero risponderà con un enorme ‘Non ne ho idea’”.

    “L’unica cosa certa – ha detto invece Kelley Lee, professore presso la Simon Fraser University in Canada che sta studiando l’impatto delle restrizioni ai viaggi sulla pandemia – è che c’è stato un netto cambiamento del modo in cui si parla della chiusura delle frontiere”. Prima si spingeva per i confini aperti, poi nella fase acuta del Coronavirus è stato tutto chiuso, adesso l’Oms chiede una graduale riapertura a seconda delle singole situazioni nazionali. “Ma le prove a sostegno di una tesi o dell’altra – ha continuato Lee – non sono cambiate, sono ancora insufficienti”. Così, mentre il mondo intero cerca un vaccino contro il Covid, continua a brancolare nel buio riguardo all’efficacia o meno delle restrizioni ai viaggi.

    Nel frattempo, a Ischgl fioccano le richieste di risarcimento da parte dei turisti che si sono infettati a marzo scorso. Sono circa mille le persone, provenienti da una dozzina di Paesi diversi, ad aver citato in giudizio il Governo austriaco. Tutti sostengono che l’esecutivo locale avrebbe dovuto chiudere prima il resort divenuto poi un focolaio di Coronavirus e chiedere ai turisti di non recarsi nel Tirolo. “Lo sapevano tutti, ma hanno deciso di non dirlo a nessuno. La ricchezza prima della salute”, ha dichiarato una delle donne che hanno fatto causa all’Austria. In totale, sono almeno 27 le persone che si sono contagiate a Ischgl e poi sono morte. Sono invece più di 11mila i cittadini europei che hanno contratto il virus proprio lì, secondo una ricerca dell’emittente austriaca ORF. Mentre tutti a Ischgl si chiedono se la stagione sciistica potrà ripartire senza intoppi nel prossimo novembre, nessuno ancora oggi – dopo 8 mesi dall’esplosione del Coronavirus – è in grado di dire se le frontiere aperte siano o meno un pericolo per la curva dei contagi.

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