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    “La polizia mi ha fermato 13 volte perché sono nero. Non accetto statue dedicate a schiavisti”: intervista a un attivista di Black Lives Matter Bristol

    Credits: Facebook/Black Lives Matter Bristol
    Di Marta Vigneri
    Pubblicato il 22 Giu. 2020 alle 17:08 Aggiornato il 22 Giu. 2020 alle 20:06

    Daniel Harrhy ha 20 anni ed è un attivista del movimento Black Lives Matter di Bristol, la città in cui è nato da padre gallese e madre giamaicana. Daniel sa cosa vuol dire essere un nero nel Regno Unito degli anni 2000, anche in una delle città più progressiste del Paese, governata da quattro anni da un sindaco laburista nero. “Semplicemente difficile”, racconta. Troppe volte si è sentito discriminato solo per il colore della pelle. “In 20 anni la polizia mi ha fermato 13 volte, senza mai trovare qualcosa che non andasse. Ogni volta non avevano nessuna ragione per farlo, eppure mi fermavano, solo per il colore della mia pelle e gli abiti che indossavo. Non hanno mai usato la forza, ma se avessi reagito sarebbe potuto succedere”, racconta a TPI.

    Per questo per il giovane attivista la situazione nel Regno Unito, “non è troppo diversa da quella che c’è negli Stati Uniti”, e la manifestazione del 7 giugno scorso a cui ha partecipato insieme ad altre migliaia di persone, che ha portato alla rimozione della statua del trafficante di schiavi del 17esimo secolo Edward Colston, non è stata organizzata solo per chiedere giustizia dopo l’omicidio di George Floyd, ma per urlare che il razzismo è un problema urgente e su cui la società “non riflette abbastanza”.

    “Negli anni non c’è stato un lavoro costante e continuo sui diritti civili e sull’anti razzismo, mentre è assolutamente necessario che la società non smetta d’interrogarsi, è un argomento che bisogna affrontare e su cui bisogna agire”, racconta. Motivo per cui la morte del 46enne afroamericano a Minneapolis durante il fermo della polizia è stata anche un’opportunità “per riflettere a livello locale su quello che bisogna fare per educare le persone”. “Visto che conosco moltissimi che come me sono stati discriminati dalla polizia, o dai proprietari dei negozi, o a scuola, o per strada, ci siamo tutti detti “enough is enough”, quando è troppo è troppo. Perché il razzismo è qualcosa che continua a esistere e nessuno fa nulla a riguardo”, spiega.

    L’abbattimento della statua di Colston, la prima di una lunga serie di monumenti rimossi sulla scia delle proteste, non cambierà le cose, ma è un primo passo e un segnale per portare avanti la riflessione, nonché “qualcosa che andava fatto”. Perché, da nero, camminare ogni giorno accanto alla figura di quell’uomo, conoscendone la storia, era doloroso e anche insensato. “Colston ha sottratto migliaia di persone alle proprie case, ha preso forzatamente uomini donne e bambini e si è arricchito vendendoli come schiavi”, un’immagine a cui pensava ogni volta che attraversava il centro di Bristol, o quando si recava a scuola da piccolo.

    “Quando andavo alle medie alla St Mary Redcliffe, dovevo passare accanto a quella statua ogni singolo giorno. E poco dopo, in classe, mi insegnavano cosa aveva fatto quell’uomo. Non solo, alla St Mary c’erano le houses, le confraternite, e una di queste porta proprio il nome di Colston. Era paradossale sapere che è stato un commerciante di schiavi, parlare di tutte le cose orribili che aveva fatto, e poi vivere pacificamente in una città che lo celebrava ovunque”, dichiara, spiegando che la statua non era l’unico avamposto cittadino dedicato all’uomo. E l’impeto di rimuoverla è nato spontaneamente da tutti quella domenica pomeriggio. “Tutti quelli che si sono ritrovati nella folla di persone quel giorno sapevano che qualcosa andava fatta. Perché era sbagliato che una delle città più multiculturali della Gran Bretagna celebrasse ancora uno schiavista, che dopo tanto tempo quella statua era ancora lì senza che nessuno facesse niente”. Così, racconta Daniel scandendo le parole con tono sofferto, “abbiamo deciso di prendere la situazione in mano”.

    Il fatto che Colston fosse stato per Bristol anche un simbolo positivo, che aveva portato alla città ricchezza e lustro costruendo scuole, ospedali e rifugi per gli indigenti, per Harrhy e gli altri attivisti della città non era una giustificazione sufficiente per preservarne i monumenti come se niente fosse. “Ci sono tantissime altre persone che hanno aiutato la società per cui non erigeresti una statua”, dice.

    Come Jimmy Savile, il  presentatore britannico celebre in vita per le numerose attività di beneficienza, a cui erano state dedicate diverse statue in tutto il Paese, rimosse dopo uno scandalo sessuale esploso nel 1991, quando dopo la morte si scoprì che aveva abusato di centinaia di minorenni nel corso della sua carriera. “Quando abbiamo scoperto cosa aveva fatto, tutte le sue statue sono state rimosse. E anche se aveva donato milioni di pounds agli ospedali, questo non giustificava la preservazione delle sue statue. Qual è la differenza con un mercante di schiavi?” si chiede Harrhy. E se gli fai notare che rimuovere la statua di Colston, vissuto centinaia di anni fa, equivale a cancellare il passato della sua città, risponde di conoscere modi alternativi di ricordare quella storia, senza celebrarla.

    “Non bisogna in nessun modo cancellare la storia o dimenticare le persone come Colston che l’hanno fatta. Personalmente non sarebbe stato un problema per me se quella statua fosse stata conservata in un museo con la descrizione di chi era Colston e di quello che aveva fatto, di buono e di sbagliato. Ma intorno alla statua non c’era un contesto, non era spiegata la sua storia. Era solo una statua che celebrava qualcuno che noi sapevamo essere anche uno schiavista. La storia non deve essere riscritta, ma contestualizzata”, osserva.

    Uno dei luoghi della città che ama di più è la stazione degli autobus, dove è affissa la targa commemorativa della Bristol Bus Boycott, una campagna lanciata da un gruppo di politici e attivisti nel 1963 per boicottare la compagnia di autobus che rifiutava di impiegare lavoratori neri o di origine asiatica. In seguito alle proteste, la Omnibus Company fu costretta a cambiare le sue politiche di assunzione del personale, e l’iniziativa si rivelò decisiva anche per altri importanti conquiste in favore dei diritti delle minoranze in Gran Bretagna, come l’approvazione del “Race Relations Act” del 1965, che rese le discriminazioni razziali fuori legge nei luoghi pubblici e del “Race Relations Act” del 1968, che estese il provvedimento anche ai luoghi di lavoro e alle politiche di impiego. Per Daniel, “è questo il tipo di storia che dovrebbe essere celebrata”.

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