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Home » Economia

Banche rotte: ecco cosa sta succedendo nel settore del credito e perché l’Italia è vulnerabile

Immagine di copertina
Christine Lagarde, presidente della Bce. Credit: AGF

I crack negli Stati Uniti. La caduta del Credit Suisse. Le turbolenze su Deutsche Bank. E il panico che corre sui mercati. Ecco cosa sta accadendo nel settore del credito. E perché il maxi-debito pubblico rende l’Italia più fragile

«È sempre la stessa storia: gente piena di arroganza e avidità prende rischi stupidi e fallisce». Michael Burry, l’investitore americano che aveva previsto la grande crisi del 2008, ha commentato così il fallimento della Silicon Valley Bank, che venti giorni fa ha fatto sprofondare nel panico le Borse di mezzo mondo.

S&D

La bancarotta dell’istituto californiano, insieme al crack della newyorkese Signature Bank, hanno scoperchiato le falle dei meccanismi di vigilanza degli Stati Uniti. Ma – seguite dal naufragio del Credit Suisse sulle Alpi elvetiche e dalle turbolenze sul titolo della tedesca Deutsche Bank – hanno anche minato le certezze del sistema del credito europeo e aumentato la pressione sulle banche centrali, chiamate al complicato dosaggio di acceleratore e freno sui tassi per contenere l’inflazione senza innescare una recessione.

Il risultato di questi smottamenti è che adesso, su entrambe le sponde dell’Atlantico, fino a piazza Affari a Milano, tutti si chiedono se siamo all’alba di una nuova pandemia finanziaria. 

Analogie e differenze
Rispetto alla crisi esplosa quindici anni fa con il tracollo della Lehman Brothers, i default di oggi sono molto diversi. In quel caso il castello di carta venne giù perché erano stati concessi prestiti a chiunque in modo scriteriato. La Silicon Valley Bank – un istituto regionale, di dimensioni non paragonabili al gigante Lehman – è rimasta stritolata, invece, dalle difficoltà dell’unico settore al quale (forse colpevolmente) si rivolgeva – il digitale – combinate con la politica monetaria restrittiva della Federal Reserve: i tassi elevati hanno sgonfiato l’attivo della banca impedendole di far fronte alla corsa ai prelievi della clientela.

Copione analogo si è visto con la Signature Bank, operante con il mondo delle criptovalute. Quanto al Credit Suisse, il colosso svizzero ha rischiato di essere spazzato via da un’ondata di sfiducia dopo anni di scandali e dopo che il principale azionista – la Saudi National Bank – si è rifiutato di iniettare nuova liquidità: la banca è stata poi salvata dalla connazionale Ubs alla modifica cifra di 3 miliardi di euro (perché i panni sporchi si lavano sempre in casa) ma il suo crollo ha rischiato di travolgere, qualche giorno dopo, anche la Deutsche Bank.

Le differenze con il 2008 riguardano, però, anche il contesto politico-economico. Reduci dalla massiccia spesa pubblica del biennio pandemico, oggi gli Stati sono molto più indebitati di allora e l’inflazione corre a ritmi da anni Ottanta: sebbene l’intervento del presidente americano Joe Biden sia stato tempestivo per tamponare le paure in scia al caso Svb, questi fattori riducono assai il margine di azione di governi e banche centrali in caso di tempesta. Ed è anche per questo che sarebbe imprudente sottovalutare i campanelli d’allarme risuonati in queste settimane.

D’altra parte, c’è anche un importante elemento che accomuna la crisi di quindici anni fa con i crack recenti: entrambe le volte le banche sono state affossate dalle strategie scellerate del proprio management. Ieri furono i mutui subprime, oggi – almeno nel caso degli istituti statunitensi – è stata la scelta di concentrare gli attivi in misura sproporzionata su titoli a lunga scadenza, senza accorgersi del rischio che ciò comportava in un quadro di tassi in rialzo. «Gente piena di arroganza e avidità prende rischi stupidi e fallisce», dice appunto Michael Burry.

Prendete queste scelte dissennate, aggiungeteci la deregulation del settore finanziario ripristinata da Donald Trump e avrete un buon manuale di istruzioni su come mandare gambe all’aria una banca.

Mary Poppins insegna
Si tratta solo di casi isolati o siamo in presenza di una crisi di sistema? Nemmeno i maggiori esperti del settore sanno dirlo con certezza. Larry Fink, il patron di Blackrock, il più ricco fondo d’investimento del mondo (gestisce asset per oltre 8mila miliardi di dollari, quasi quattro volte il Pil dell’Italia), ha scritto nella sua annuale lettera agli investitori che «è troppo presto per sapere quanto sia diffuso il danno». Ma ha sottolineato anche che l’aumento dei tassi «ha messo in luce le crepe nel sistema finanziario» e che «stiamo pagando il prezzo di anni di soldi facili».

L’economista emiliano Salvatore Bragantini, commissario Consob dal 1996 al 2001, parte dal cinema per descrivere quello che sta accadendo. Il film è un cult per bambini, “Mary Poppins”, la scena si svolge – neanche a dirlo – all’interno di una banca: il piccolo Michael implora l’anziano banchiere di restituirgli 2 penny depositati contro la sua volontà, gli altri correntisti presenti ne deducono che i loro risparmi siano a rischio e, spaventati, si precipitano in massa agli sportelli per ritirare tutti i loro soldi, nel giro di pochi minuti l’istituto di credito fallisce.

«Quella scena – spiega Bragantini – ci ricorda che le banche, anche le più forti, sono tenute in vita dalla pubblica fede, cioè dalla fiducia». «Oggi affermare che non corriamo alcun rischio sarebbe scorretto». Secondo l’economista, gli ultimi default registrati a cavallo fra gli Stati Uniti e la Svizzera «avranno un impatto sulle politiche delle banche centrali»: i rialzi dei tassi potrebbero rallentare. «Ma né la Bce né la Fed ammetteranno mai che hanno agito per paura di una fuga dai titoli di Stato, non possono darlo a vedere». 

In ballo, insomma, non c’è solamente la tenuta del settore del credito, ma quella di interi tessuti economici nazionali, col rischio di un contagio a livello globale.

«Siamo in una fase – prosegue Bragantini – in cui il Quantitative Easing sta rientrando, la liquidità sta diminuendo, anche se non tanto quanto si pensava, e in capo alle banche centrali c’è un delicato gioco di acceleratore e di freno. Certamente l’inflazione aiuta a ridurre il peso dei debiti pubblici, ma se per contrastare l’inflazione le banche centrali alzano molto i tassi, l’effetto è di un peggioramento sui conti degli Stati più indebitati». A cominciare ovviamente dall’Italia, esposta verso i creditori per il 147% del proprio Pil.

Il sistema creditizio italiano, peraltro, secondo l’ex commissario Consob «è fondamentalmente sano»: «Nelle banche più piccole ci sono stati alcuni problemi, e alcuni ancora ci sono, ma per i grandi istituti la situazione sembra tranquilla», anche se rappresenta «un elemento di rischio» l’elevata mole di investimenti in titoli di Stato.

L’Associazione Bancaria Italiana calcola che nei portafogli degli istituti di casa nostra siano presenti 585 miliardi di euro di debito sovrano: obbligazioni che, in tempi di stretta monetaria, vedrebbero crollare il proprio valore, se venduti prima della scadenza.

Ma per Bragantini «potrebbero andare incontro a serie difficoltà anche i fondi di private equity»: l’economista ricorda il caso di Blackstone, che di recente ha dovuto sospendere i prelievi dai suoi fondi immobiliari perché non riusciva a far fronte all’aumento delle richieste di rimborso. «Tutto perfettamente lecito – precisa l’economista – ma è la dimostrazione di una situazione di stress».

Senza munizioni
«Se si tratta di una crisi di sistema, di solito lo si capisce dopo», mette subito in chiaro il professor Roberto Tamborini, docente di Economia finanziaria all’Università di Trento. «Sembra che le banche sistemiche europee siano immuni al “contagio”. Però, attenzione: questo discorso, che pure va fatto con molta cautela, vale solo per gli istituti di dimensione maggiore, quelli cioè soggetti agli stress test della Bce». E gli altri? «Ci sono banche regionali tedesche di cui sappiamo ben poco, hanno una gestione molto opaca e legata ai governi dei lander».

Quanto alle italiane, «l’opinione prevalente – riferisce Tamborini – è che, dopo le dure lezioni degli anni Dieci (i crack delle banche del territorio in Veneto, Toscana, Liguria, Puglia, ndr), le cose siano migliorate». Anche perché da noi prevale ancora il modello di banca tradizionale, che si regge su depositi e impieghi di famiglie e imprese, che – certo – quando la congiuntura è positiva si rivela meno profittevole rispetto agli istituti iperfinanziarizzati, ma che,  quando arriva la crisi, si dimostra più solido.

«Una crisi di sistema – prosegue il docente – si verifica se il contagio corre lungo i canali strutturali che connettono fra loro le banche. E da questo punto di vista, pare non ci sia nulla al momento. Poi, però, c’è un secondo ordine di fattori che può influire in positivo o in negativo: cioè il modo in cui si comportano le autorità di politica economica, ovvero le banche centrali e i governi». Ed è qui che si annidano oggi i rischi più concreti.

«La Bce e la Fed – fa notare Tamborini – sono in una fase molto delicata, perché gli strumenti che hanno a disposizione per contenere l’inflazione possono finire per stimolare o innescare il contagio. In questi anni le banche si sono a lungo lamentate della politica dei “tassi zero”, ma, dopo i profitti registrati nell’ultimo triennio, ora vedono nei rialzi prolungati più un rischio che un’opportunità di guadagno: temono che la stretta monetaria possa inibire l’economia. Per la Bce e la Fed si pone un dilemma: da un lato non vogliono dare il segnale di lasciar correre l’inflazione anteponendovi l’interesse delle banche, ma dall’altro rischiano di favorire il propagarsi di una crisi».

Non solo: mentre le banche centrali sfogliano la margherita, ci sono governi nazionali che devono fare i conti con elevati debiti pubblici, e quindi con una minor capacità di spesa. Il risultato, conclude il professore, è che, in caso di un’emergenza, le autorità economiche «potrebbero ritrovarsi senza le munizioni necessarie per contenere il contagio».

Un contro-choc di offerta
Marcello Messori, professore di Economia all’Università Luiss di Roma, una montagna di incarichi alle spalle, tra cui la presidenza di Ferrovie dello Stato, rimarca un punto in particolare: «Una delle lezioni che dobbiamo apprendere da queste crisi è che bisogna completare l’architettura istituzionale della regolamentazione bancaria in Europa, completare cioè l’unione bancaria». 

Ma prima bisogna fare un passo indietro: i fallimenti della Silicon Valley Bank e della Signature Bank hanno palesato le fragilità del sistema di vigilanza statunitense, rafforzato dopo il 2008 da Barack Obama ma nuovamente indebolito nel 2017 da Trump. Nell’Eurozona, dove non ci sono stati allentamenti alla regolamentazione, quei crack probabilmente non si sarebbero potuti consumare: le banche europee, fa notare Messori, «hanno in media molta più liquidità disponibile e modelli di attività meno concentrate su impegni di lungo periodo». Almeno per il momento, dunque, da noi «dovrebbe esserci una barriera più robusta».

Tuttavia, prosegue l’economista, negli Stati Uniti «la rapidità di reazione della Casa Bianca forse consentirà di circoscrivere i problemi», mentre in Europa, invece, ciò non sarebbe stato possibile, perché «il processo di unione bancaria non è ancora stato completato».

In altre parole, nell’Eurozona abbiamo controlli più rigidi rispetto agli Usa, ma non siamo ancora un sistema federale: in caso di emergenza, non c’è un bazooka europeo, ma solo tanti piccoli fucili nazionali. O, in alternativa, caricare tutto sulle spalle della Bce, come abbiamo visto negli anni della crisi dell’Euro.

Messori non è fiducioso sul fatto che l’unione bancaria possa completarsi: «Sul terzo pilastro, quello della garanzia comune sui depositi non superiori ai 100mila euro, non è mai stato raggiunto un accordo. E anche il secondo pilastro, il meccanismo europeo di risoluzione delle crisi bancarie, è azzoppato a causa delle difficoltà ad attuare il bail-in». 

Ma l’economista ha una proposta per uscire indenni da questa crisi, combattendo l’inflazione senza favorire la recessione: «Dobbiamo attuare politiche fiscali espansive selettive per stimolare l’offerta», dice. Come? «Attraverso beni pubblici europei. E rafforzando la capacità fiscale europea».

«Le faccio un esempio: se a luglio 2022 gli Stati membri, anziché correre ad approvvigionarsi di fonti energetiche in ordine sparso, facendo esplodere i prezzi, avessero centralizzato le forniture, noi avremmo avuto meno strozzatura dell’offerta e risultati di approvvigionamento ancora migliori».

Ma per questo serve qualcosa di molto simile agli Eurobond: «Un embrione c’è già, con il Next Generation Eu», continua Messori. «In base alla mia proposta, la produzione di beni pubblici europei dovrebbe rendere ricorrente la capacità fiscale centralizzata. Sarebbe un contro-choc di offerta che avrebbe il duplice effetto di contenere l’inflazione e di stimolare la crescita». E il temuto “contagio”, così, sarebbe quasi scongiurato.

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