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Home » Economia

Petrolio e gas: quanto pesa il fattore energia nella guerra in Medio Oriente

Immagine di copertina
Credit: AGF

Il conflitto in Medio Oriente spinge al rialzo i prezzi di petrolio e gas. Per ora la situazione è sotto controllo. Ma l’Iran minaccia di chiudere lo Stretto di Hormuz. Se lo farà, il commercio mondiale di idrocarburi verrà paralizzato. Con conseguenze devastanti

Il 17 giugno scorso, mentre Israele e Iran si lanciavano missili per il quinto giorno consecutivo e gli Stati Uniti erano ancora semplici “osservatori” del conflitto, due petroliere si sono scontrate e hanno preso fuoco nei pressi dello Stretto di Hormuz. 

La Front Eagle, proprietà della norvegese Frontline, trasportava 2 milioni di barili di greggio iracheno ed era diretta a Zhoushan, in Cina, mentre la Adalynn, dell’indiana Global Shipping Holding, non aveva carico e stava navigando verso il Canale di Suez. L’incidente non ha avuto conseguenze gravi: nessuno nei due equipaggi è rimasto ferito, né si sono aperti sversamenti in mare. Ma l’episodio ha comunque destato allarme: sembra infatti che a provocare la collisione siano state le sempre più frequenti interferenze elettroniche nei sistemi di navigazione che si registrano nella zona dello Stretto da quando è iniziato il fuoco incrociato tra lo Stato ebraico e la Repubblica islamica. 

Quello di Hormuz – 33 chilometri di mare tra la penisola arabica e l’Iran – è il più importante passaggio marittimo al mondo per il commercio di petrolio e gas naturale liquefatto. Da qui passano circa il 20% delle forniture mondiali di oro nero e Gnl: un transito obbligato, non circumnavigabile.

Dopo l’attacco subìto da Israele, e ancor più dopo quello patito dagli Stati Uniti, Teheran è tornata a minacciare la chiusura dello Stretto come forma di pressione sulla comunità internazionale. Per il mercato globale dell’oil & gas – e a cascata per miliardi di consumatori – sarebbe una catastrofe.

Effetto bomba
L’allargamento del conflitto in Medio Oriente a est di Israele, in una delle regioni più importanti del pianeta per l’estrazione e le rotte del petrolio e del metano, ha avuto un impatto immediato sui prezzi dei due idrocarburi, che insieme soddisfano ancora oltre metà della domanda globale di energia.

Nelle ore del primo bombardamento ebraico su Teheran, la quotazione del Brent è schizzata del 14% a 78 dollari al barile, il livello più alto dal 22 gennaio, stabilizzandosi nei giorni seguenti intorno ai 75-76 dollari, nettamente sopra i valori che si erano registrati a partire da aprile ma comunque ancora al di sotto dei prezzi che avevano caratterizzato i primi due mesi di quest’anno. 

Da quando il presidente degli Stati Uniti Donald Trumo ha iniziato a ventilare la possibilità di entrare in scena, il greggio ha registrato una nuova fiammata, fino a 79 dollari, ma – almeno nel momento in cui scriviamo (lunedì 23 giugno) – il picco di 120 dollari toccato nel giugno 2022, pochi mesi dopo l’invasione russa dell’Ucraina, è ancora lontano.

Quanto al gas, dopo lo scoppio della guerra la quotazione sul Ttf di Amsterdam è salita fino a 41 euro al megawattora, come non accadeva dal 2 aprile. Anche in questo caso, peraltro, l’apice drammatico dei 240 euro al megawattora, raggiunto nell’agosto del 2022, sembra solo un brutto un ricordo, almeno per il momento.

Le fluttuazioni dei prezzi energetici hanno implicazioni che riguardano il mondo intero e sono particolarmente cruciali per l’Italia, un Paese che importa oltre il 90% del gas naturale e il 95% del petrolio consumati e che produce elettricità per il 40% tramite combustione di metano.

Passaggio vitale
Tra gli obiettivi colpiti dalle bombe israeliane, c’è il giacimento iraniano di South Pars, la più grande riserva di gas al mondo, che si trova nel Golfo Persico, dove in seguito all’attacco la produzione è stata parzialmente sospesa. Anche il deposito di petrolio e la raffineria di Shahran, vicino a Teheran, sono stati presi di mira, benché senza provocare gravi danni. Sul fronte opposto, i missili degli ayatollah hanno centrato la raffineria di Haifa, costringendola alla chiusura, mentre più del 60% della produzione di gas naturale di Israele, incluso il giacimento offshore Leviathan, è stata interrotta per motivi di sicurezza.

Se la curva dei prezzi è salita ma senza impennare ai livelli di tre anni fa, è principalmente perché il conflitto – almeno al momento in cui scriviamo – non ha ancora coinvolto direttamente lo Stretto di Hormuz. È da lì che si teme possa divampare l’incendio.

L’incubo è che l’Iran possa intervenire militarmente bloccando il passaggio delle navi e paralizzando così i traffici intercontinentali delle materie prime energetiche per eccellenza. 

Nei primo giorni del conflitto è stato nello specifico l’ex pasdaran Esmail Kowsari, oggi membro conservatore del parlamento iraniano, a rivelare che la possibilità di chiudere il passaggio marittimo era «in fase di valutazione» da parte di Teheran, ipotesi peraltro già evocata ad aprile dal comandante della Marina delle Guardie della Rivoluzione, il contrammiraglio Alireza Tangsiri. Ma dopo l’attacco dei B-2 americani, il pressing si è fatto più insistente. Domenica 22 giugno il Parlamento iraniano ha approvato la chiusura, anche se la decisione finale spetta al Consiglio supremo per la sicurezza nazionale.

«La chiusura dello Stretto, anche per un periodo limitato, avrebbe un impatto significativo sui mercati globali del petrolio e del gas», si leggeva nel Rapporto mensile sul mercato petrolifero pubblicato dall’Agenzia internazionale per l’Energia lo scorso 17 giugno.

A pagarne il prezzo più alto sarebbero i Paesi asiatici, come la Cina, l’India e il Giappone, tra i principali clienti delle esportazioni petrolifere dalla penisola arabica. Ma le ricadute sarebbero critiche a ogni latitudine. I produttori mediorientali – inclusa la stessa Iran – perderebbero una enorme fetta dei propri sbocchi commerciali. E la prevedibile impennata dei prezzi scatenerebbe effetti nefasti praticamente ovunque.

Secondo Francesco Sassi, ricercatore di Geopolitica dell’energia all’Università di Oslo, «se lo Stretto di Hormuz venisse chiuso, le conseguenze sarebbero devastanti, difficilmente calcolabili in termini di ricaduta sui prezzi: il petrolio potrebbero schizzare ben oltre i 100 dollari al barile e l’impatto potrebbe essere anche peggiore per il gas, vista la rilevanza del Qatar per il mercato del Gnl».

Sassi è scettico sulla possibilità che Teheran – nono produttore mondiale di petrolio e terzo produttore di gas – si spinga a chiudere del tutto il passaggio marittimo, ma non esclude che gli ayatollah possano ricorrere ad altre forme di disturbo. «Nello Stretto di Hormuz – fa notare l’esperto parlando con TPI – si intersecano gli interessi di troppi Paesi perché la chiusura possa essere una strada concepibile per l’Iran, ma, attraverso altri mezzi o facendo passare altri messaggi dal punto di vista politico, il Paese potrebbe comunque conseguire un livello di instabilità sui mercati sufficiente affinché ne possa trarre vantaggio». Il pensiero corre subito alle interferenze elettroniche che si sono intensificate nella zona dello Stretto dopo l’inizio del conflitto.

Cosa fa l’Opec Plus
Da quando è scoppiata la guerra in Ucraina, le riserve di gas sono in sofferenza. La situazione in questi tre anni è migliorata, ma i livelli di stoccaggio sono tutt’ora bassi. Ciò espone il metano a un’ulteriore fronte di vulnerabilità.

Al contrario, il petrolio attraversa una fase in cui l’offerta supera di gran lunga la domanda. All’inizio di aprile l’Arabia Saudita – primo produttore mondiale – ha guidato altri sette Paesi dell’Opec Plus (Russia, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Iraq, Algeria, Kazakistan e Oman) nella decisione di interrompere il piano di tagli alla produzione in vigore dal 2023, una mossa che ha conseguentemente spinto i prezzi verso il basso, con il Brent sceso sotto quota 70 dollari al barile (ci è rimasto fino all’inizio del conflitto tra Israele e Iran).

Il cambio di rotta di Riyad ha colto molti analisti di sorpresa: il mercato, infatti, non manifestava in quel momento alcun problema di fornitura e, per giunta, la politica dei dazi sospinta dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump fa presagire una contrazione della domanda.

Le spiegazioni ipotizzate sono due, e una non esclude l’altra. La prima è che i sauditi abbiano voluto punire Paesi come l’Iraq e soprattutto il Kazakistan, colpevoli di non aver rispettato nei mesi addietro l’impegno di calmierare le rispettive produzioni. La seconda è da ricondurre allo stretto legame tra la monarchia del Golfo e Washington. 

Quest’anno, fin dai suoi primi discorsi da presidente rieletto, Trump ha più volte esortato l’Opec Plus ad abbassare i prezzi del petrolio. Nell’ottica attuale della Casa Bianca, moderare le quotazioni del greggio è utile sia, da un lato, per contrastare l’impatto inflazionistico dei dazi a livello globale sia, dall’altro, come arma di pressione nei confronti della Russia – Paese esportatore di idrocarburi – al tavolo delle trattative di pace sulla guerra in Ucraina. Ecco allora che la scelta dell’Arabia Saudita di tornare a incrementare la produzione di petrolio può essere letta anche come un «regalo» – così lo ha definito la Reuters – a Trump. Un cadeau che evidentemente il principe Mohammad Bin Salman si aspetta di veder ricambiato in qualche modo dagli Usa.

Seguendo questo ragionamento, è facile comprendere come le nuove tensioni tra Israele e Iran, e i conseguenti rincari sull’oro nero, rischino di complicare i suddetti piani del presidente statunitense, che pure – spinto da tutt’altre motivazioni – ha deciso di seguire Netanyahu nei suoi piani contro Teheran. 

D’altra parte, è di tutta evidenza che, se il greggio e il gas acquistano valore, tra coloro che più ci guadagneranno c’è la Russia di Vladimir Putin, che non si serve dello Stretto di Hormuz per commerciare i propri idrocarburi.

Mai fare previsioni
Negli ultimi dieci anni le dinamiche del mercato petrolifero sono state determinate essenzialmente dall’incremento, in parallelo, della domanda dalla Cina e dell’offerta dagli Stati Uniti, quest’ultima trainata dalla rivoluzione dello shale gas.
Ma le cose stanno cambiando. Nel medio termine i consumi – specialmente quelli cinesi – saranno frenati dall’avanzata dell’economia green: l’Agenzia internazionale per l’Energia (Iea) stima che entro il 2030 i veicoli elettrici sostituiranno un totale di 5,4 milioni di barili al giorno di domanda globale di petrolio; il resto lo faranno le rinnovabili, che insieme al gas naturale, prenderanno progressivamente il posto dell’oro nero. L’Iea si aspetta che nei prossimi anni la crescita dell’offerta «supererà di gran lunga» l’aumento della domanda. 

Se questa è la tendenza, sarebbe logico aspettarsi per il futuro prezzi sempre più bassi per il greggio. Con la conseguenza probabile, soprattutto se i dazi spingeranno in su l’inflazione, che gli investimenti nel settore diventeranno via via meno sostenibili dal punto di vista dei costi e quindi tenderanno a calare

Le fibrillazioni in Medio Oriente sono uno dei principali fattori esterni che potrebbero scompaginare questo scenario. «In base ai fondamentali i mercati petroliferi sembrano destinati a essere ben forniti negli anni a venire, ma gli eventi recenti evidenziano chiaramente i significativi rischi geopolitici per la sicurezza dell’approvvigionamento petrolifero», conferma il direttore esecutivo dell’Agenzia, il turco Fatih Birol.

Dunque? Non resta che aspettare. Come ha recentemente osservato l’italiano Lorenzo Simonelli, numero uno della società di tecnologia energetica Baker Hughes, «non bisogna mai provare a prevedere quale sarà il prezzo del petrolio, perché una cosa è certa: si sbaglia».

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