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Home » Economia

La scalata dei sovranisti a Generali: l’asse Del Vecchio-Caltagirone ci riprova

Immagine di copertina
Credit: AGF

La holding dei Del Vecchio ottiene l’ok di Ivass per salire oltre il 10%. Il Gruppo Caltagirone spinge per cambiare le norme sui cda. Dopo il flop del 2022 le due famiglie imprenditoriali sono pronte a ridare l’assalto al Leone di Trieste. Un’operazione che stavolta è vista di buon occhio dal Governo

Da quando, ormai nove mesi fa, Fratelli d’Italia ha vinto le elezioni, il vento nel Paese è cambiato. Non è solo una frase fatta. Su quasi tutti i fronti il Governo Meloni sta dettando, per non dire imponendo, un approccio di rottura rispetto al passato: vale per il fisco, per la giustizia, per i diritti sociali e civili, per la cultura, per la tv. E anche sui tavoli allungati del capitalismo, ora che al potere ci sono i “patrioti” di Giorgia, si fanno concreti scenari che prima sembravano impensabili, o quantomeno difficili da realizzare.

S&D

Ad esempio, sembra aver improvvisamente ripreso vigore il piano di scalata alle Assicurazioni Generali da parte dell’asse composto da Francesco Gaetano Caltagirone e dalla famiglia Del Vecchio. Lo scorso 30 giugno, l’Ivass, l’autorità di vigilanza del settore assicurativo, ha dato il via libera a Delfin, la holding dei Del Vecchio, per salire oltre il 10% del capitale del “Leone di Trieste”: un balzo in avanti di pochi decimali che però significa molto, perché apre potenzialmente la strada a volare fino alla soglia del 20% senza bisogno di ulteriori autorizzazioni.

Già lo scorso anno, quando a palazzo Chigi c’era ancora Mario Draghi, Delfin e il Gruppo Caltagirone si erano lanciati nella scalata. L’impresa però fallì. Adesso si profila all’orizzonte un secondo tentativo, ma questa volta – come vedremo più avanti – il tandem sembra godere della sponda politica dei sovranisti al governo.

Se l’operazione dovesse effettivamente avere successo, si tratterebbe di una svolta epocale. Per la prima volta Generali, la cassaforte del potere economico nazionale, finirebbe in mano a una cordata di imprenditori con interessi in svariati settori – moda, costruzioni, editoria – che la sfilerebbero al controllo dell’alta finanza: ovvero Mediobanca, che col suo 13% ha la quota di maggioranza relativa. 

E qui entra in gioco l’altro fronte su cui si combatte questa guerra. Perché Delfin e il Gruppo Caltagirone, con la più classica delle manovre a tenaglia, hanno intrapreso in parallelo anche un’opera di rastrellamento sul mercato di azioni di Piazzetta Cuccia che li ha portati a detenere circa il 30% del capitale, un pacchetto – al quale vanno aggiunte le quote dei soci alleati, come la famiglia Benetton e l’imprenditore campano Danilo Iervolino – che potrebbe avere un peso determinante nell’assemblea di Mediobanca in programma il prossimo ottobre. 

Questa è la seconda opzione per il duo Del Vecchio-Caltagirone: prendere l’istituto di credito milanese per arrivare al colosso assicurativo di Trieste. Certo, le regole della Bce impediscono a soggetti di carattere non finanziario di avere il controllo di una banca, ma si può trovare un escamotage. O attribuendo le proprie azioni a un ente amico che abbia i requisiti. Oppure facendo un patto con il cda uscente.

Potenza di fuoco
Generali – che in Borsa vale circa 30 miliardi di euro – è la più grande compagnia assicurativa d’Italia e una delle più grandi a livello europeo. È in buona salute: nel 2022 ha raccolto premi per 81,5 miliardi di euro e ha realizzato un utile di 2,9 euro staccando un dividendo da quasi 1,8 miliardi per gli azionisti.

Ma soprattutto gestisce asset per 618 miliardi di euro, pari a circa un terzo del Pil nazionale: una potenza di fuoco che nel nostro Paese non ha eguali. Mettere le mani sul Leone significa, in altre parole, avere accesso a un pozzo molto profondo di finanziamenti per i propri progetti imprenditoriali.

Non solo: nel portafogli del gruppo spiccano una sessantina di miliardi di euro investiti in titoli di Stato italiani, il che attribuisce a Generali anche un’importanza cruciale dal punto di vista politico.

Faida sull’eredità
All’assemblea dei soci del 29 aprile 2022, quando c’era da rinnovare il consiglio d’amministrazione, Caltagirone e Delfin provarono il blitz, sostenuti dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Torino e dalla famiglia Benetton, ma la loro lista di minoranza si fermò appena sotto il 30% e al timone del gruppo fu così confermato l’amministratore delegato italo-francese Philippe Donnet, candidato dal cda uscente.

Due mesi dopo, il 27 giugno, moriva a Milano a 87 anni uno dei protagonisti assoluti di quella tentata scalata: Leonardo Del Vecchio, che attraverso la holding Delfin era a capo di un impero la cui gemma più preziosa è la multinazionale degli occhiali Essilor Luxottica. Al momento della sua morte, Del Vecchio era il secondo uomo più ricco d’Italia, con un patrimonio stimato da Forbes pari a 24,5 miliardi di euro.

A oltre un anno di distanza dalla sua dipartita, la pratica del testamento è ancora aperta, con quattro degli otto eredi designati – i sei figli, più la seconda moglie Nicoletta Zampillo e il primogenito di quest’ultima, Rocco Basilico – che hanno accettato il legato con beneficio d’inventario allungando notevolmente i tempi della successione.

A ciascun erede l’imprenditore ha lasciato il 12,5% di Delfin, imponendo però che le principali decisioni debbano essere prese con la maggioranza dell’88%.

Il timone della holding di famiglia è stato invece affidato a un papa straniero: Francesco Milleri, 64 anni, presidente esecutivo e amministratore delegato di Essilor Luxottica, un fedelissimo di Del Vecchio, che gli ha anche attribuito azioni della multinazionale per circa 270 milioni di euro. Anche quest’ultimo punto è al centro delle contestazioni dei figli del “grande vecchio”.

I dissidi fra gli eredi rendono complicata la gestione da parte di Milleri e potrebbero rivelarsi un ostacolo in più rispetto alle manovre su Generali. Anche perché, per salire al 20% del Leone, Delfin dovrebbe sborsare qualcosa come 3 miliardi di euro: difficile, senza il consenso di tutti i soci.

Non a caso, dopo il clamore mediatico suscitato dalla recente autorizzazione dell’Ivass, Delfin è intervenuta gettando acqua sul fuoco con un comunicato nel quale ha precisato che la richiesta inviata all’Autorità di vigilanza è stato solo un passaggio tecnico dovuto: Generali – hanno spiegato dalla holding – ha avviato un piano di acquisto di azioni proprie «che ha determinato il superamento involontario, da parte di Delfin, della soglia del 10% dei diritti di voto esercitabili».

L’istanza rivolta all’Ivass, assicura la società finanziaria, «non sottintende dunque alcuna particolare strategia di Delfin, se non quella di agire in conformità alle regole rispetto alla propria posizione quale azionista della compagnia assicurativa triestina».

D’altra parte, però, è anche vero che, trovandosi in quella situazione, Milleri avrebbe potuto correre a vendere la quota eccedente il 10%. Se non l’ha fatto – è il ragionamento che viene fatto negli ambienti finanziari – è perché trama qualcosa, o almeno ha voluto garantirsi la possibilità di avere mano libera nel caso volesse tornare all’assalto di Generali.

Il ruolo di Nagel
Risposte importanti, in questo senso, potrebbero arrivare a ottobre, quando ci sarà l’assemblea degli azionisti di Mediobanca che dovrà eleggere il nuovo consiglio d’amministrazione.

Alberto Nagel, amministratore delegato in carica dal 2008, punta alla riconferma, ma Delfin e Gruppo Caltagirone – soci rispettivamente con quote del 19,8% e del 9,9% – se volessero potrebbero sbarrargli la strada. Il punto è proprio qua: lo vorranno fare?

Mediobanca è il socio di maggioranza di Generali con il 13,1% delle azioni e all’assemblea dell’anno scorso si è schierata in difesa dell’a.d. uscente Donnet contro la rivolta Caltagirone-Del Vecchio. Eppure, a margine dell’ultima assemblea di Piazzetta Cuccia, Milleri ha usato toni morbidi nei confronti del management: «Siamo azionisti di lungo periodo e anche contenti».

Ecco perché, come ha ipotizzato Dagospia, la mossa con Ivass di Delfin potrebbe anche essere letta come un velato messaggio a Nagel: «Generali ci interessa ancora, se vuoi essere confermato alla guida di Mediobanca devi mollare Donnet». Ricordiamo anche che circa un terzo dell’utile di Piazzetta Cuccia deriva proprio dalla partecipazione in Generali. 

Donnet nel mirino
Caltagirone e la holding dei Del Vecchio contestano all’amministratore delegato del Leone di Trieste una gestione non sufficientemente ambiziosa. Vorrebbero che Generali si elevasse al livello degli altri colossi europei del settore come Axa, Allianz e Zurich, magari mettendo a segno una grande acquisizione sul modello della fusione (in tutt’altro settore) tra Luxottica e la francese Essilor.

Da parte sua, Donnet – sostenuto finora, oltreché da Mediobanca, dai fondi internazionali, che mettono al primo posto sempre redditività e stabilità – rivendica di aver sempre centrato gli obiettivi fissati dai piani industriali e di aver staccato in questi anni ricchi dividendi per gli azionisti. Ma al Gruppo Caltagirone e a Delfin non basta.

«Abbiamo bisogno di scelte rivoluzionarie che scardinino tutti i vincoli che vengono dal passato. Dobbiamo iniziare ad abbattere i muri e a creare campioni prima nazionali e poi europei, per competere alla pari con i colossi internazionali», disse Leonardo Del Vecchio al Corriere della Sera nel dicembre 2021.

E ancora: «Serve un’ottica da imprenditori più che da finanzieri. I dividendi oggi spesso sono a scapito della crescita dimensionale delle aziende».

Toni simili a quelli usati qualche mese più tardi – marzo 2022 – da Francesco Gaetano Caltagirone in un’intervista al Sole 24 Ore alla vigilia della fallita scalata: «È una guerra d’indipendenza delle Generali, poi verrà il Risorgimento». L’obiettivo finale? «Una grande multinazionale con sovranità italiana che protegga i risparmi del Paese». Un approccio “sovranista” che peraltro stona col fatto che Delfin ha sede in Lussemburgo.

Sintonia politica
All’epoca al governo c’era Mario Draghi, decisamente restio a mettere il naso nelle dinamiche del libero mercato. Con l’esecutivo Meloni, però, la musica sembra cambiata. Come rivelato da Milano Finanza, poche settimane fa la maggioranza aveva preparato un emendamento al ddl Capitali – poi saltato per la contrarietà del Ministero dell’Economia – che puntava a rivoluzionare le regole per l’elezione dei consigli d’amministrazione: il testo considerava “non presentata” la lista del cda se uno o più soci con una quota di almeno il 9%, dunque pesanti, avessero presentato una propria lista con un numero di candidati pari a quello dei consiglieri da eleggere.

Uno dei più grandi sostenitori di una norma del genere è proprio Caltagirone: a fine giugno, in audizione davanti alla Commissione Finanze del Senato, il costruttore romano, nonché editore di svariati giornali (tra cui Il Messaggero, Il Mattino, Il Gazzettino), ha affermato che il meccanismo secondo cui il cda uscente presenta una propria lista «rischia, con un’iperbole, di creare una autocrazia».

Il riferimento era ovviamente al muro eretto l’anno scorso all’assemblea di Generali dal board uscente Mediobanca. Lo stesso Caltagirone, poche settimane prima, ospite del Festival dell’Economia di Trento, aveva elogiato il Governo: «Sta seminando bene», è «ben attivo», aveva detto.

Sembra esserci dunque una buona sintonia fra il nuovo esecutivo e i capitalisti “eversivi” di Generali. Un’armonia d’intenti sulla quale Deborah Serracchiani, deputata del Pd nonché ex presidente della Regione Friuli Venezia Giulia, ha presentato un’interrogazione ai ministri dell’Economia e dell’Impresa.

«Il Governo – si legge nell’atto parlamentare – chiarisca quali procedure sono state seguite dall’Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni». «È rilevante – prosegue Serracchiani – sapere se i ministri competenti siano a conoscenza di fatti e decisioni connesse a un’operazione che potrebbe riaprire la partita per il controllo della più grande compagnia assicurativa del Paese».

L’onorevole dem domanda inoltre all’esecutivo di precisare «se l’autorizzazione richiesta per sanare un fatto tecnico sia stata concessa in forma incondizionata e illimitata e, nel caso, quali considerazioni l’Ivass abbia svolto a tutela del settore assicurativo e dei clienti per giungere a siffatta conclusione».

L’istruttoria dell’autorità di vigilanza – il cui presidente, per statuto, è il direttore generale della Banca d’Italia – è durata due mesi e mezzo: l’istanza è stata presentata da Delfin il 17 aprile e il verdetto è arrivato il 30 giugno sulla base di valutazioni – coperte da segreto – che riguardano la solidità patrimoniale e la capacità finanziaria della holding dei Del Vecchio. Che nel frattempo – per la cronaca – è già scesa appena sotto al 10%.

Ma qui, forse, le percentuali dell’oggi rilevano solo fino a un certo punto. Quel che conta davvero è il messaggio che si porta con sé l’istanza di Milleri accolta dall’Ivass. Come diceva Enrico Cuccia, leggendario finanziere di Mediobanca, «le azioni non si contano, si pesano».

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