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Guida Bardi
Home » Economia

Il fondo finanziario che distrutto La Perla

Immagine di copertina

Lars Windhorst ha comprato il brand bolognese dell’intimo di lusso nel 2018. In 5 anni non ha presentato un piano industriale. E ha fatto precipitare l’azienda in crisi. Eppure il mercato va alla grande. Ecco cosa c’è dietro

Immaginiamo una scena in cui al ministero delle Imprese e del Made in Italy, davanti alla sottosegretaria Fausta Bergamotto e all’assessore allo Sviluppo economico della Regione Emilia Romagna Vincenzo Colla, in un tavolo di crisi aziendale, il finanziere proprietario dell’azienda si colleghi in video-call da un jet privato e, mentre il suo amministratore delegato mangia una banana guardando in camera, dice alle 324 lavoratrici rimaste senza stipendio: «Mettetevi nei miei panni». Questa scena impertinente quanto surreale rappresenta il processo di de-industrializzazione dell’Italia. 

S&D

È il 5 settembre 2023 e in collegamento con il ministero dal suo jet privato davanti alle parti sociali, c’è Lars Windhorst, fondatore della Tennor Holding, che nel 2018 ha acquistato il gruppo La Perla, brand mondiale del Made in Italy specializzato nella corsetteria di lusso, top di gamma e leader indiscusso nel settore dell’intimo.

Al tavolo del ministero sono sedute le rappresentanti delle lavoratrici dello stabilimento di Bologna, che nel mese di agosto erano rimaste senza stipendio. Lo stipendio è poi arrivato qualche giorno dopo l’incontro.

Speculatore
Lars Windhorst, 46 anni, tedesco, è una figura molto discussa nella finanza europea. Già protagonista di alcuni fallimenti, tra cui quello nel 2003 della sua startup Windhorst New Technologies, la storia della sua holding è costellata da insolvenze, denunce, multe e indagini.

I suoi problemi coinvolgono gli organi di controllo di diversi Paesi europei, dalla Consob tedesca BIfin a quella francese Cob, sul caso H2O, fino ai contenziosi in corso da parte di creditori al Tribunale di Londra e alla sentenza di primo grado del Tribunale di Amsterdam, che nel 2 novembre 2021 aveva dichiarato l’insolvenza e il fallimento di Tennor Holding, sentenza poi annullata dalla Corte d’appello olandese.

Sul sito della Tennor Holding leggiamo: «Investe in società pubbliche e private attraverso l’acquisizione di quote di maggioranza e di minoranza, nonché di strumenti di debito pubblico e privato».

Questa la mission che si pone almeno sulla carta: raccogliere investitori emettendo titoli di debito per gestire quote societarie e, tramite queste, generare i profitti per i risparmiatori che hanno investito. A leggere la storia di Tennor, che all’epoca dell’acquisizione di La Perla si chiamava Sapinda Holding, le cose però sembrano essere andate in maniera differente. 

Tennor acquisisce il gruppo nel 2018 dall’imprenditore Silvio Scaglia, con il quale sembra condividesse altri affari, a un prezzo riservato che si vocifera essere stato molto basso. L’anno seguente la Tennor acquisirà quote della squadra di calcio tedesca Hertha Berlino ed entrerà nel marchio londinese Ralph&Russo. 

Le sventure, per lo storico marchio di Bologna, iniziano subito. Già al suo arrivo la Tennor  annuncia 128 licenziamenti per esubero, tutti nel segmento di alta qualità, ricerca e sviluppo. La cosa si risolve grazie a una vertenza avviata delle lavoratrici chiusa con circa una novantina di uscite volontarie. 

Sono gli stessi anni in cui la Tennor Holding, dal lato degli investitori, è protagonista di una delle più discusse operazioni finanziarie in Europa, legata alla crisi di liquidità del fondo francese H2O. Il fondo, promettendo rendimenti stratosferici ai risparmiatori, aveva acquisito titoli e obbligazioni Tennor per circa 2 miliardi di euro, in un’operazione che vedeva coinvolti come distributori molte banche e gruppi d’investimento italiani: da Azimut a Generali, da Bper a Mediolanum.

Dopo poco tempo si scopre che i titoli emessi da Tennor erano tecnicamente insolventi in caso di riscatto da parte dei risparmiatori: parliamo di circa 2 miliardi di euro di titoli “illiquidi”, tutti legati alle varie attività di Windhorst. Proprio a causa degli investimenti spericolati con Windhorst, il fondo H2O è stato multato dalle autorità francesi. 

Tra gli asset piazzati da Tennor troviamo anche i bond di La Perla, che sembrano essere stati anche la causa del contenzioso da parte di Heritage Group, che aveva investito proprio in quelle obbligazioni oltre 172 milioni di euro. 

A voler trovare uno schema, in questa tempesta finanziaria che rende l’economia reale un semplice strumento al servizio delle azioni bancarie, verrebbe da pensare che qui si vada ben oltre la classica diversificazione degli investimenti, le chiusure per delocalizzazione, dinamiche classiche della finanziarizzazione dell’economia: qui il sospetto è che i brand di lusso siano usati per attrarre risparmiatori con il prestigio del marchio, per poi da una parte tenere in crisi l’azienda (come vedremo più avanti) e dall’altra non rispettare gli impegni con i risparmiatori. 

Lo schema “win to win” sbandierato sulla carte dalle holding – accumulare risparmio per offrire capitale alle aziende e poi con gli introiti distribuire i dividendi – in questo caso sembra trasformarsi in un “loss to loss”, con i marchi ridotti a esca per attrarre un capitale che non si riversa sulla produzione e sugli investimenti, ma diventa invece ninfa per ulteriori azioni finanziarie. 

Svuota-tutto
Vincenzo Colla, assessore alle attività produttive della Regione Emilia Romagna, raggiunto al telefono da TPI, dice: «Abbiamo il timore di trovarci davanti a un caso di pirateria finanziaria, con una proprietà del marchio braccata dagli organi di controllo di mezza Europa. Tennor deve proporre un piano affidabile quanto prima, altrimenti lasci l’azienda, perché degli acquirenti un marchio così li torva velocemente. Serve però agire in fretta: più passa il tempo più, con questa gestione, il marchio perde valore». 

Alla manifestazione “La strada Maestra” della Cgil a Roma incontro Stefania Pisanu, segretaria della Filctem-Cgil di Bologna: per lei «il fondo Tennor sta nei fatti annullando La Perla, la sta svuotando perché non vuole attivare la produzione nonostante ci sia grande mercato. Parliamo di 324 lavoratrici con professionalità altissime, che stanno lottando da settimane davanti ai cancelli della loro azienda per pretendere un piano industriale o in alternativa per chiedere l’ingresso di un altro imprenditore che capisca il potenziale che ha in mano». 

La Perla è uno dei marchi top del Made in Italy nel mondo. La fondatrice Ada Masotti e il figlio sono stati imprenditori lungimiranti di stampo olivettiano, investendo fortemente nella cultura aziendale e nella formazione. Hanno fatto di Bologna il fulcro dell’intimo in termini di qualità e prestigio. 

«Sono entrata nel 1999, eravamo 1.400 dipendenti e io ero la più giovane», mi dice Antonella Grasso Conte, 45 anni, analista tempi e metodi dello stabilimento di Bologna. «Oggi, dopo venticinque anni, sono ancora la più giovane e siamo rimaste in 330, purtroppo non esiste l’esproprio in Italia, sarebbe bello», sorride sarcastica. 

Antonella ha conosciuto l’azienda nei periodi d’oro: «Abbiamo collaborato con Jean Paul Gautier, con il reality i Kardashians, per Swarosky, c’è stato periodo che facevamo un intimo con un filo d’oro. Oggi invece stiamo lavorando con gli avanzi di magazzino, e stiamo vendendo anche quelli, il processo produttivo si è invertito, non ci sono più le commesse, siamo noi che produciamo dal basso proponendo in base alla nostra esperienza e assemblando con quello che c’è rimasto.

Ogni volta che produciamo uno stock va venduto e in pochissimi giorni, c’è una forte domanda del mercato del lusso, i clienti ci scrivono e non riusciamo a soddisfare le richieste. Assurdo no? Siamo in contratto di solidarietà, e intanto le richieste dei clienti rimangono senza risposta». 

Nello stabilimento di Bologna, non si acquista materia prima da anni. Si sta andando avanti ancora con gli acquisti fatti con la gestione Scaglia prima del 2018. La Tennor di fatto non ha mai portato un vero piano aziendale né ha mai fatto reali investimenti sulla produzione. Anzi: sembra fare di tutto per bloccarla definitivamente in maniera incomprensibile. 

Stefania Prestopino 54 anni, in azienda da vent’anni, lavora nella comunicazione e mi racconta che nelle ultime settimane, oltre ai fornitori storici che non consegnano più perché la proprietà non paga, anche i servizi Internet sono stati sospesi per insolvenza. La newsletter, il sito dell’e-commerce, finanche le email aziendali: tutto bloccato.

«Il marchio La Perla Fashion Holding funziona, ci hanno tenute a galla solo perché vogliono tenere il marchio, ma di fatto si pubblicizza il Made in Italy senza nessun progetto di sviluppo. Anche le modelle, i fotografi: sono tutti sfiduciati! I manager da Londra ci chiedono di fare le foto internamente, ma come si fa? Vi sembra professionale? La Terron ha detto di aver speso 300 milioni di euro, ma non si capisce dove li ha investiti, sono anni che gli stipendi vengono pagati con casse integrazioni e contratti di solidarietà. Nell’ultimo incontro al ministero, la sottosegretaria Bergamotto ha impegnato Tennor a presentare un piano industriale e finanziario entro il 15 ottobre, la scadenza è passata e finora non è stato presentato nessun piano, vediamo anzi solo segnali negativi. Il mio sogno – conclude Stefania – è che Windhorst ci lasci andare e che veniamo acquistati da un imprenditore affidabile che investa sul valore dell’azienda». 

Desertificazione
A fronte dell’ennesimo impegno preso davanti alle lavoratrici e alle istituzioni, la proprietà ha nuovamente disertato gli incontri e disatteso ogni promessa, dimostrando una sostanziale inaffidabilità anche nei confronti del Ministero, che ha convocato le parti per un ennesimo tavolo il prossimo 6 novembre. 

Per Sergio Lo Giudice, capo di gabinetto con delega al lavoro della Città Metropolitana di Bologna, si tratta di «speculatori finanziari borderline che stanno avendo un atteggiamento surreale nei confronti dell’azienda»: «Non si capisce come mai dichiarino di aver speso 300 milioni di euro e di fatto non ci sia stato nessun investimento reale sull’azienda, il sito produttivo bolognese è in ginocchio ed è assurdo che non si comprenda come il marchio La Perla sia indissolubilmente legato all’altro livello di professionalità delle lavoratrici dello stabilimento di via Mattei. I vertici aziendali (compreso il management locale) nel frattempo hanno disertato anche una udienza conoscitiva del Comune di Bologna e il silenzio di questi ultimi giorni non promette nulla di buono». 

Il presidio dei sindacati, intanto, continua: si tiene in ogni pausa pranzo fuori dai cancelli della fabbrica. La speranza che il gruppo fallisca, per poi permettere al marchio di essere messo all’asta, non è poi così celata da parte degli addetti ai lavori.

Alcuni auspicherebbero una procedura controllata da parte di un tribunale che possa mettere in sicurezza il patrimonio dell’azienda depurandolo da probabili esposizioni e carichi debitori pendenti, per poi finalmente poter assegnare questo gioiello del Made in Italy a un imprenditore che conosca il concetto di responsabilità sociale d’impresa. 

Le 324 lavoratrici dello stabilimento bolognese di La Perla stanno lottando da settimane portando avanti di fatto un’autoproduzione: «Noi siamo a difesa dell’azienda, ci spiace più rovinare la famiglia de La Perla che perdere il nostro stipendio», mi dice Antonella. 

In un momento in cui si fa un gran parlare del lavoro femminile, la lotta di queste lavoratrici per l’importanza della manifattura italiana nel mondo assurge a simbolo di un Paese che sta vendendo i suoi migliori asset alla speculazione finanziaria. 

Negli ultimi cinque anni sono circa mille le imprese passate a mani estere: di queste, una su due è stata spolpata della propria tecnologia e lasciata morire o convertita in semplice filiale, rischio che si intravede anche per gli stabilimenti italiani di Stellantis.

Le acquisizioni del Made in Italy sono in aumento del 25% e spesso a fare shopping non sono gruppi industriali ma fondi speculativi che ragionano in termini trimestrali, spingendo tutti i guadagni nel pagamento di dividendi agli azionisti, distogliendo fondi alla ricerca e allo sviluppo ed escludendo il miglioramento delle condizioni di lavoro: un modello fallimentare che sta lentamente dissanguando il sistema produttivo di una delle manifatture più prestigiose al mondo. Per evitarlo servirà tornare a una chiara idea di politica industriale, un‘idea che nella città di Dozza e di Dossetti è cara alle istituzioni, alle parti sociali, ai lavoratori e alle lavoratrici.

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